Magia sacra ed essere umano divino

Nella tarda antichità si assiste al diffondersi di un’idea di trasformazione magica – assente nelle religiosità cosiddette civili, figlie delle istituzioni – conseguita attraverso elaborati rituali di “morte” e “rinascita” a nuova vita. Tali credenze sono alla base delle dottrine misteriche in cui confluiscono molti aspetti filosofici e teologici dal neoplatonismo all’orfismo ai culti di matrice orientale, laddove la teologia stessa sconfina e si confonde per l’appunto con le pratiche magiche. Fra i maggiori coltivatori di queste ricerche attorno alle quali fioriscono numerosi studi, soprattutto all’inizio del Novecento, vanno indubbiamente annoverati Hermann Usener e Richard Reitzenstein (1902; 1904).

Abbiamo già avuto modo di soffermarci, parlando della longevità trasformativa che caratterizza la figura della Sibilla, sulla devozione popolare che organizza immaginari rituali propri, svincolati dall’ufficialità, vincendo e superando nel tempo il logorarsi delle liturgie di potere.

Col tramonto del mondo antico, stando alle più recenti conclusioni in materia di storia delle religioni, si è riscontrato come diversi culti siano oggetto di un processo di rinnovamento, saldandosi in una sorta di sincretismo convergente. In particolare, lo studio dei documenti della religione egizia in età ellenistica, con riferimento ai papiri magici e alle raccolte di preghiere più vicini alla devozione dei ceti bassi, restituisce un intreccio di influenze che mostrano con chiarezza quanto il cristianesimo stesso abbia attinto al misticismo ellenistico.

Se la storia della civiltà greca era dominata dall’antitesi tra la religione olimpica e le credenze misteriosofiche, quest’ultime veicolate principalmente dai santuari demetriaci e dalle comunità orfiche e pitagoriche, la cesura pare riassorbirsi nell’orizzonte concettuale del periodo tardoantico. Da un lato l’Apollo di Delfi, rigoroso e sanzionante sull’osservanza dei limiti e della separatezza tra natura umana e divina, dall’altro la saggezza iniziatica che ammetteva il superamento delle barriere fra mondo terreno e celeste, fluiscono in una corrente che conduce alla redenzione salvifica. D’interesse il risvolto sociale evidenziato da Eric Dodds (1965) in questa dinamica: una sintesi dottrinaria così definita rappresentava una risposta credibile all’angoscia e alla perdita di riferimenti che scuoteva le comunità dell’epoca.

Nella temperie che per sommi capi abbiamo qui ricostruito, magia e religione, lo si diceva all’inizio, non appaiono nettamente delimitate: Apuleio – pure finito sotto processo con l’accusa di praticare incantesimi per sedurre una ricca ereditiera – soffermandosi sulla natura dei Magi persiani ne rilevava la qualità sacerdotale. D’altra parte in latino il vocabolo sacerdos si applica sia al sacerdote che al mago; a titolo d’esempio si pensi all’esecutrice del rito magico per Didone nell’Eneide virgiliana (IV, 483).


Il myste, detentore della sapienza segreta nelle liturgie misteriche, era il mediatore fra corporeo e incorporeo, fra essenza terrena e ultraterrena. Nel Grande papiro magico di Parigi – il più lungo dei papiri magici pervenuti con le sue 36 pagine – è descritta l’esperienza estatica che gli consente di ritrovare in se stesso frammenti di una creazione spirituale dimenticata nelle profondità del proprio sé. L’estasi può essere suscitata attraverso diverse tecniche respiratorie, cosicché il pneuma diviene l’elemento chiave di congiunzione fra soffio individuale e respiro cosmico.   

La figura del myste o docheus o medium che dir si voglia è al centro della teurgia, comportando un allontanamento dalle premesse della teologia. Emblematico in tal senso lo scontro tra il neoplatonico Porfirio e il suo allievo Giamblico, autore di un commentario sull’opera di Giuliano il Teurgo, il poeta sciamano ispiratore dei misteri teurgici. Considerando i proseliti della scuola di Apamea fondata da Giamblico, si può sostenere che sul finire del III secolo d. C. l’idea che ai fini della comprensione del divino il pensiero razionale andasse di necessità integrato con rituali magici, fosse prevalente.

Questo patrimonio di concetti e credenze, qui brevemente elencato, risulta funzionale al pensiero umano fin dalle origini. Si pensi al rapporto fra magia e poesia, secondo cui in molte culture arcaiche talune espressioni classificate come poetiche, rientrano a pieno titolo nei formulari magici; rimandiamo in proposito allo studio insuperato di Anita Seppilli (1962; 1971).


In determinati momenti storici alcune idee sono assurte a nuova gloria, mostrando un’improvvisa vitalità e tenendo a battesimo altre stagioni, quando si ritenevano ormai morte e sepolte. Ciò è utile a comprendere una volta di più la straordinaria continuità dell’immaginario collettivo, quel coacervo di pensieri convidisi dalle varie generazioni su un arco di tempo lunghissimo. Pensieri che ognuno di noi può avvertire sul proprio cammino, in risonanza con il proprio inconscio, volendo adottare la griglia interpretativa junghiana che meglio ha saputo orientarci in mezzo a tali primitive testimonianze. La percezione di familiarità e perfino di consuetudine quando ci chiniamo su certi frammenti dell’essere e del divenire umano, anche se ci separano i millenni, viene da una comune radice dell’anima. È un percorso affascinante nella storia ma anche nel tempo infinito del sé, che offre un senso compiuto alla nostra vicenda terrena come qualcosa in cui la materialità sfuma e si trascende volgendosi al magico e al sacro.    


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La mostra “Creature fantastiche: il mito prende forma” al Museo di Storia Naturale del Mediterraneo di Villa Henderson a Livorno, sulle espressioni dell’immaginario umano dall’antichità al Novecento, sarà aperta fino al 31 ottobre 2025.

* Alcuni dei temi trattati in questo articolo sono alla base della mia raccolta poetica d’esordio:
Claudia Ciardi, Umana Sibilla, con una prefazione di Daniele Regis, Setart Edizioni, aprile 2025

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Oracles, metaphysics and Poetic Pilgrimages

By divine nature and poetry / Per natura divina e per poesia

Sibille delle isole e relazioni culturali

Pochi territori al mondo favoriscono il confronto e la commistione culturale come le isole. Si potrebbe pensare il contrario, in quanto luoghi talvolta inaccessibili, spesso lontani dalla terraferma e, come per l’appunto ci ricorda il sostantivo che le designa, isolati. Invece, è proprio qui che le diversità approdano e convergono, dando vita a modelli peculiari, resistenti, inattesi. Su un carattere intriso di indubbi tratti conservativi, tant’è vero che simili ecosistemi, laddove il turismo non sia arrivato con i suoi flussi eccedenti, tendono a mostrarci qualcosa di perduto, si innesta anche un’attitudine all’apertura, all’interazione. Questa fluidità isolana instaura confini mobili nello spazio e nel pensiero in un processo inverso rispetto al continente.  

Proseguendo la nostra ricognizione sulla Grecia antica, le isole ci si offrono come osservatori privilegiati di tali dinamiche. In età alto-arcaica molti di questi ambienti ospitano comunità miste e i santuari, soprattutto, divengono centri di assimilazione religiosa e culti condivisi, nonché strutture di riferimento per la comunicazione interculturale. Riprendendo una definizione più che calzante di Lewis Mumford (1961), nei santuari greci si dispiega l’incontro con gli altri e, dunque, «un nostos verso le proprie radici», ossia un processo di ritorno e recupero identitario da parte dei nativi.

Ciò è comprovato dall’osservazione di due classi di fenomeni in particolare: l’elaborazione di un linguaggio sacro relativo alla sfera santuariale da parte di una comunità mista insediata su un’isola; la dedica di oggetti votivi nei santuari locali. Sono le tematiche a cui lo storico e antichista Giorgio Camassa ha dedicato un ciclo di saggi raccolti in un volume che nel titolo evoca, non a caso, la figura della Sibilla. Negli articoli precedenti si è dato rilievo alla natura sibillina come elemento sovrastrutturale, figura tratteggiata da un immaginario collettivo svincolato, non istituzionalizzato coevo alla movimentata temperie dell’ellenismo arcaico. Per inciso, la sua collocazione a Samo o nell’Ellesponto – secondo le numerose genealogie ex post – confermano nella geografia il sentimento di naturale vicinanza a orizzonti irrequieti e frammisti che si accompagnano a questa creatura sacra. La Sibilla giudaica, frutto delle tensioni storiche che investono la compagine mediorientale fra il III e il II secolo a. C., incarna e rovescia i codici oracolari della tradizione, riflettendo il punto di vista delle comunità ellenizzate. Siamo ancora una volta di fronte a una testimonianza spirituale che accentra in sé un destino storico. Il distacco fra le comunità ebraiche di Alessandria e Gerusalemme in cui si inseriscono le mire dell’impero romano sulla regione offrono uno spaccato della convivenza fra l’etnia greca, egiziana ed ebraica oltre a richiamare la nostra attenzione sul perpetuarsi dell’incontro-scontro tra Asia ed Europa, fra Oriente e Occidente. Proprio il ricorrere di questo motivo costituisce l’ossatura degli Oracoli Sibillini ben prima del I secolo a. C., periodo al quale vengono di solito riportate le sezioni di testo del terzo libro, il più composito e stratificato della raccolta e dove maggiormente si esprime la visione del giudaismo ellenistico in Egitto.  


Ricordo per inciso la mia narrazione dedicata alla biblioteca alessandrina presentata all’inizio dell’anno al Museo italiano di scienze planetarie di Prato, attraverso cui mi sono soffermata sull’Heraion di Samo e le vie commerciali e sapienziali aperte lungo questa rotta con la città tolemaica. In un resoconto riguardante la fioritura umanistica e scientifica – dall’astronomia alla medicina – negli stessi anni in cui si era intrapresa la costruzione del faro e il medico Erofilo disegnava il primo abbozzo del sistema vascolare umano, ho dato risalto proprio agli aspetti dell’incontro e del meticciato culturale. Una condizione che non significa assenza di attriti o di fasi conflittuali. Rappresenta tuttavia un’atmosfera di grande interesse per ciò che si diceva in apertura sulle interazioni plurisecolari nelle frontiere isolane e nei territori costieri.  
Tornando, sempre a tale proposito, alle trattazioni di Camassa mi sembra di non secondaria importanza l’esercizio sulle fonti a cui ci invita. Nel confronto tra arcaismo ed ellenismo, che abbiamo toccato nel presente articolo a partire dagli sconfinamenti identitari e dalla loro riaffermazione, è importante non liquidare la fonte letteraria tarda come meno veritiera. Pensare quest’ultima come poco attentibile in quanto lontana dal periodo in cui una tradizione si è formata, è un argomento blando. In questo metodo risuona anche la lezione di Silvio Ferri che abbiamo precedentemente analizzato e che ci permette di abbracciare in modo meno pregiudiziale e con maggior successo i molteplici aspetti mitologici e rituali di cui si compone un frammento del passato, specialmente per quel che concerne le figure del pensiero, le mentalità, integrando tradizioni orali, archeologia e opere d’arte. Solo così e ragionando sul tempo in termini duttili, porosi, all’occorrenza incoerenti è possibile farsi un’idea del cammino avventuroso e affatto lineare degli esseri umani e dell’impronta che la loro immaginazione ha lasciato in eredità al mondo.

🌏«L’utilità della geografia, intendo dire, presuppone che il geografo sia un filosofo, un uomo che impegna se stesso nella ricerca dell’arte di vivere, o detto in altro modo, della felicità». (Strabone, Geografia, I, 1, 1)
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Academia.edu – Il desiderio del divenire stelle / The desire of becoming stars

I volti del sacro nel mondo antico / The faces of the sacred in the ancient world. My lecture on YouTube with English subtitles

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Claudia Ciardi, Umana Sibilla, con una prefazione di Daniele Regis, Setart Edizioni, aprile 2025

Dalle “Lettere del veggente” di Rimbaud

Una piccola premessa sull’epifania di questo libro. Lo possiedo da tempo, affiorato e scomparso a intervalli regolari negli scaffali della libreria. Appartiene a una tiratura fuori stampa di Einaudi, un regalo ai lettori distribuito in ventimila copie una quindicina di anni fa. Sono una dei ventimila destinatari; se mi ha raggiunta non è stato per caso. L’intuito mi ha sempre suggerito che prima o poi quelle pagine avrebbero parlato compiutamente a un’altra me e, dunque, non dovevo separarmene. L’idea della veggenza in poesia mi affascinava già allora ma ancora mi sfuggiva come quel messaggio potesse saldarsi sul mio percorso. O meglio, il percorso era stato appena intrapreso tanto che non potevo neppure capire dove mi trovassi. Ma proprio per le cadenze sottili e inesorabili che la vita silenziosamente ci riserva, eccolo ora reclamare le mie attenzioni. E io subito gliele ho accordate, bevendo ogni sorso, sicura che nulla avrei sprecato di quel calice.


Così mentre impacchettavo dei libri per il book-crossing ospedaliero, mi è tornato fra le mani. “Aprimi! Sono medicina”. Vero, la poesia lo è senz’altro, anzi preferirei dire medicamento, vocabolo più desueto che meglio sembra trattenere la sostanza curatrice. E poi, sì, fa diventare anche veggenti se davvero lo vogliamo. Parola di Arthur Rimbaud, che quando vergava queste frasi aveva appena diciassette anni. Erano i giorni della Comune di Parigi e il giovane scalpitava per salire sulle barricate. I destinatari delle sue confessioni sono Georges Izambard, insegnante di retorica, e Paul Demeny, poeta. Le sponde offerte dai due interlocutori favoriscono l’invettiva contro la cultura morta dell’erudizione, l’apostrofe rivolta allo studioso da scrivania che dimentica il mondo ma ha la pretesa di spiegarlo. Chi compila dizionari è un accademico, dunque un fossile, mentre il poeta percepisce tutto, tocca la parola viva in cui è depositato ogni sentire, perciò suo compito è definire l’ignoto che si risveglia, far stillare resina e sangue dall’anima universale. «Tutta la poesia antica porta alla poesia greca. Vita armoniosa. […] In Grecia, dicevo, i versi  e le lire ritmano l’azione. Dopo, musica e rime sono giochi, divertimenti. Lo studio di quel passato affascina i curiosi: molti si divertono a rinnovare queste cose antiche: è roba per loro. L’intelligenza universale ha sempre gettato via le sue idee, naturalmente; gli uomini raccattavano una parte di questi frutti del cervello: agivano con loro, ci scrivevano dei libri: così andavano le cose, poiché l’uomo non curava se stesso, non si era ancora risvegliato, o non era ancora nella pienezza del grande sogno. Funzionari, scrittori: autore, creatore, poeta, quest’uomo non è mai esistito! Il primo studio dell’uomo che vuole essere poeta è la conoscenza di se stesso, intera: egli cerca la sua anima, la scruta, la mette alla prova, la impara».

Ma come avviene una tale immersione, questo inabissarsi senza ritorno? Non è un atto pensato, si tratta piuttosto di un divenire. Farsi veggenti è una condizione non una decisione. D’altra parte, essere fino in fondo comporta una discesa all’inferno come il farmaco che cura è anche veleno. Evitando l’esperienza straniante e dolorosa, nulla accade. Non c’è creazione né guarigione. Si resta a un grado frammentato e incosciente, che preclude qualsiasi capacità sensitiva, nascosti al vero sé. Allora e solo allora «queste poesie saranno fatte per restare. In fondo sarebbe ancora un po’ la poesia greca». Poesia come sguardo lucido gettato sull’ignoto, questo per Rimbaud è il coraggio della precognizione, risanamento della ferita che ha separato l’uomo dalla scintilla divina. Non a caso il cantore e l’autore di versi erano considerati dagli antichi prossimi ai profeti, alle personalità in grado di formulare la parola del Dio attraverso gli oracoli. Una caratteristica basata sullo “sregolamento di tutti i sensi” che, nei termini espressi dal poeta francese, ricorda da vicino la possessione di indovini, Sibille e altre figure sacre. Un livello di penetrazione e limipidezza intuitiva scomparsi dalla storia del pensiero umano e dai modi di comunicare, con particolare riferimento al dire poetico, per tornare in auge con il romanticismo. A questo proposito sarà utile la Theophania di Walter Friedrich Otto per aiutarci a navigare fra sentimento e interpretazione dell’antico. Il divino era per i nostri predecessori realtà esperita, non un’astrazione bensì un fatto, una presenza reale che aveva determinato veri accadimenti, cosicché il culto e il mito non erano a loro volta semplici rappresentazioni ma emanazioni in cui il fatto riviveva. Allo stesso modo la poesia lirica greca rispecchiava un’esperienza non filtrata in cui la natura e il tempo vissuto si riversavano senza disperdere il loro carico emotivo che il poeta, come medium fra la terra e le cose celesti, raccoglieva con sensibilità limpida e profetizzante. Fu questo il primo genere letterario a far presa fra gli Elleni, in assenza di un sistema espressivo codificato, precedentemente e diversamente dall’epica con cui non smetterà di confrontarsi, soprattutto nel mezzo dei profondi mutamenti politici e sociali a chiusura dell’VIII secolo a. C. Un’apparizione, lo si è detto, che si confonde con le voci degli oracoli e con i primi oscuri autori dei cosiddetti nòmoi, componimenti pure a tema religioso, dei quali nulla resta.  

Rimbaud teorizza un nuovo avvento in cui essere e sentire siano interi e saldati. Qui sgorgherà la parola pura tratta dall’anima universale. Qui si attingerà alla pienezza del grande sogno, quale forma concreta di ogni immaginazione. Il tono è perentorio, perché chi è destinato non accampi scuse: «Dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia; egli cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni per conservarne solo le quintessenze. […] Poiché egli arriva all’ignoto! Avendo coltivato la sua anima, già ricca, più di chiunque altro! Egli arriva all’ignoto, e anche se, sgomento, finisse col perdere la comprensione delle sue visioni, le ha viste».

Il poeta è uno che ha visto, con una capacità visiva che ha squassato tutti i sensi. Dunque sa. E il suo sapere porta nel mondo il respiro abissale ed estremo dei reami sommersi in cui occultamente si è inoltrato.         

Nefomanzia – A pink glow amidst the dark

* Una precisazione per chi cerca i miei libri nello Store online di Mondadori. In seguito all’aggiornamento del sito, la rete si indirizza alternativamente a un link corretto e uno errato; quest’ultimo non permette la visualizzazione dei titoli acquistabili sotto il mio nome. Segnalo pertanto il collegamento corretto a chiunque voglia raggiungermi, auspicando che gestori e motori di ricerca risolvano il problema.
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* Alcuni dei temi trattati in questo articolo sono alla base della mia raccolta poetica d’esordio:
Claudia Ciardi, Umana Sibilla, con una prefazione di Daniele Regis, Setart Edizioni, aprile 2025

Ierogamia e psichismo della Sibilla

Sulle tracce degli studi compiuti da Silvio Ferri, proseguiamo ad addentrarci nel mistero della Sibilla, tentando una restituzione della sua identità religiosa e della sua personalità divinante. Questo tipo singolarissimo e longevo di donna provvista di estrema intuizione e saggezza, qualità infuse dal dono profetico apollineo, ha radici nella devozione popolare greca in un tempo che sfida la rigidità dei limiti cronologici imposti dagli esegeti. Contemporanea o di poco successiva all’arte dei cantori – è un fatto che Omero non ne faccia alcuna menzione tra i suoi versi – sicuramente antecede l’insediamento della Pizia a Delfi.

Quest’ultima è infatti figlia di un processo di istituzionalizzazione del culto, inserita in un collegio sacerdotale e in una pratica cerimoniale che prevede l’utilizzo di specifici strumenti divinatori nonché di un codice comunicativo per trasmettere il responso. Sibilla è il suo alter ego, diciamo così, più libero, nelle cui vene la religiosità arcaica scorre senza compromessi né censure dettate dagli apparati pubblici. Sul piano della ricerca ci offre pertanto la possibilità di esplorare un fenomeno inerente alla sfera sacra svincolato, non intorbidato, a uno stadio più primitivo non solo in termini storici ma anche sotto il profilo umano.

Dunque, quali sarebbero gli indizi salienti, i cosiddetti marcatori, che fanno della Sibilla un resto emblematico di un atteggiamento psico-religioso esteso e capillare nelle credenze della Grecia antica?

Hieròs gámos (ἱερὸς γάμος), l’unione sacra col dio, veicolo di catochè (κατοχή), la possessione da parte dello sposo divino. La ierogamia non era affatto intesa come mero contatto dello spirito; è questa semmai una lettura influenzata da una cultura più tarda. Per gli antichi l’avvicinarsi del dio corrispondeva a un atto carnale, che decretava la sua sposa e perciò destinataria delle capacità profetiche. L’atto sessuale offriva il dono della predizione che si esercitava senza alcun mezzo, senza altro tramite che la presenza del dio stesso nel corpo della Sibilla. In quanto prescelta, era la custode di tale traccia celeste dovuta all’unione carnale e mistica.

Quanto alla possessione, che nel caso presente si riconduce alla follia mantica, secondo quanto stabilito su questo argomento da Platone nel Fedro, esprime quel legame dinamico spesso scientificamente accertato fra la religione e l’amore. Anzi, nella sistemazione platonica, delle quattro forme di follia (mantica per dono di Apollo, telestica causata da Dioniso, poetica, erotica), quella d’amore è più nobile, intrisa di meno ambiguità rispetto a tutte le altre. Eros infatti sarebbe fra le divinità il mediatore per eccellenza, colui che più è capace di riavvicinare il mortale e l’immortale. L’innamorato, sotto l’effetto rivelatore del dio, grazie alla reminiscenza ottiene la massima visione della bellezza corporea e la contemplazione delle forme intelligibili; torna a sentirsi come quando l’anima preesisteva al corpo nel mondo delle idee.  

Per un’accurata discussione di tali temi si rimanda al capitolo di Luc Brisson, Del buon uso della sregolatezza in Divinazione e razionalità, a cura di Jean-Pierre Vernant, Einaudi, 1982.

Due ritratti in cui appare evidente l’ispirazione ai connotati della Sibilla
📌 Timashevskiy Orest Isakovich, Girl of Italy, XIX sec. 📌 Francois Joseph Navez, Portrait of a woman with a turban, 1826

Sibilla vaga da sola, divaga e si ricostituisce ovunque l’immaginario popolare intenda riservarle uno spazio. È propensa al sincretismo, tratto estremamente vistoso nella sua assimilazione all’interno del mondo romano, dove non a caso cumula in sé gli aspetti della Pizia greca. Riferimenti in questo senso si trovano ad esempio nelle Metamorfosi di Apuleio.

Spesso gli interpreti moderni si sono concentrati di preferenza sulla Pizia, trascurando o fraintendendo il carattere sibillino, solo perché come spiega bene Silvio Ferri si tratta di una creatura più vistosa e meno complicata. Qui opera diffusamente, e la Sibilla ha il merito di mostrarcelo in controluce, un tipico pregiudizio sul mondo greco antico che ha inibito per molto tempo l’ammissione di forme superstiziose proprie di un culto ellenico popolare.

Concludendo, l’universalità della Sibilla, in quanto resto meno cristallizzato e più sfuggente dell’antico, le ha permesso di sopravvivere alla fine del mondo greco e romano per riemergere insieme all’enigma del suo potere sacro in epoca medievale e rinascimentale. Qui le sue caratteristiche si fissano nella cosiddetta Sibylla sapiens, figura sapienziale e afflitta, pur continuando a pulsare entro il suo cuore la polimorfia che lì l’ha condotta. Qualcosa che si avverte in sottotraccia e non smette di interrogare i suoi devoti, anche fra gli insospettabili adepti contemporanei.

On Femininity and Art: Claudia Ciardi autrice/ Linkedin Profile

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