Gli antichi e la montagna


Nel corso di alcune ricognizioni sui paesaggi sacri del mondo antico ho avuto il piacere di riscoprire un bel volume edito da Celid che raccoglie gli atti del convegno tenutosi ad Aosta nel 1999 sulla montagna secondo gli antichi e le sensazioni che in loro suscitava. Non considero casuale questo “affioramento” librario visto che più volte nella cerchia dei sodalizi torinesi ho avuto la fortuna di parlare con chi alla Celid ha lavorato in un periodo di grande intensità per la casa editrice. Questa impresa, nel momento di più ampia diffusione della propria attività, si è valsa di editor accurati, procedendo a dare spazio a temi poco o affatto funzionali alle logiche di mercato, cosa che ha contribuito a un’impronta significativa quanto peculiare nel catalogo prodotto negli anni Novanta. O meglio, le esigenze del mercato di allora – e sono passati neppure una trentina d’anni ma sembra molto di più – contemplavano progetti in grado di resistere al tempo. Il libro, in quanto strumento di conoscenza, era chiamato a inserirsi nella costruzione di un pensiero ben delineato: il che non significa limitato, ma bilanciato e insieme aggettante. Con gli amici torinesi è spesso accaduto di parlare della solidità e durevolezza di certi libri passati, nel senso strettamente cronologico di pubblicati appena qualche decennio fa, rispetto alla nostra epoca di autopromozioni e lavoro creativo in serie. Leggendo simili opere si ha l’impressione di essere costantemente stimolati dalla materia scritta, un qualcosa che non risulta fine a se stesso ma che si apre ad altrettanti interrogativi, alle ipotesi di un dire ulteriore. Questa dimensione policentrica o multifocale, e lo slancio che ne consegue, è ciò che forse oggi manca a molti studi e ricerche. Si tratta infine di un aspetto autenticamente comunicante in quello che intendiamo rappresentare e nel grado di comprensione che vogliamo suscitare.

Dunque il racconto di un lavoro condotto con passione e attenzione nei confronti del materiale manoscritto e degli autori, una storia che ho più volte ascoltato dalla viva voce di chi vi ha partecipato, trova piena conferma in queste pagine. Il tema della cultura e ritualità montana risale dalle pieghe millenarie non come un fossile o una collezione museale dimenticata ma nel pieno dinamismo contestuale delle testimonianze epigrafiche, storiografiche ed epiche. L’immaginario arcaico, classico e tardo vengono analizzati all’interno delle coordinate religiose e politiche dei popoli antichi, con speciale riferimento alla civiltà romana. Non le forme svuotate di una luminosa cultura per cui si struggeva il romanticismo tedesco, non le divinità come “esseri belli di un mondo di fiaba” secondo la lezione schilleriana o le trepidazioni di Hölderlin, per cui Apollo e Dioniso erano solo gli dei del sole e del vino, cioè riflessi delle potenze di natura, o i volti di un eroismo sublime, in ogni caso frammenti statuari e vestigia del tempo cui destinare un interesse antiquario e letterario. Qui il sacro e i suoi rappresentanti tornano a veicolare un universo valoriale significante, colmo del proprio respiro, inquadrato in un cammino di fondazione e sacralizzazione degli itinerari alpini.


Si tratta della incomparabile forza creativa del pensiero religioso antico, che Walter Friedrich Otto riferiva in particolare ai greci nel mirabile argomentare della sua Theophania. In generale lo spazio gelido e innevato delle vette è percepito come entità più appartenente al cielo che alla terra. Alla montagna era perciò legato un sentimento spirituale del tutto caratteristico e persistente nel tempo, insinuandosi anche in epoche nelle quali simili paure ancestrali non avevano più motivo apparente di esistere. Il civis romano ha trionfato lungamente, spingendosi ai confini del mondo, perché ha seguitato a rispettare il senso del sacro in natura. Le direttrici appenniniche e alpestri così ricche di testimonianze cultuali confermano questa devozione e quanto l’inquietudine per la traversata di luoghi impervi riguardi indistintamente ogni classe sociale, compresi i funzionari di più alto livello da cui ci si sarebbe aspettati un atteggiamento più razionale e distaccato. A un graduale processo di statalizzazione e legalizzazione delle zone vallive, che avevano un’importanza strategica nella rete viaria dell’impero, continuava pertanto ad affiancarsi, anche a un livello politico-istituzionale, l’esigenza di una protezione sacra dai pericoli degli ambienti montani: insidie che potevano essere naturali o legate all’ostilità di chi abitava o a sua volta transitava in questi spazi. Un simile intreccio di interessi fu ben vistoso lungo la via ad Gallias: Augusto costituì dalla statio di ad Quintum (a Collegno, nelle vicinanze di Torino) al Mons Matrona, nell’arco di alcune decine di miglia cruciali per l’economia dell’intero pedemonte, un sistema di strutture sacrali, al cui interno ognuno poteva esprimere la propria pietas nei confronti della divinità che più aveva cara. Capolavoro di intelligenza politica e strumento nodale per la romanizzazione fra tarda repubblica e primo impero, lo straordinario processo di ordinamento amministrativo e sacrale delle vie di valico può dirsi una delle avventure più affascinanti e longeve dell’antichità, dove ataviche usanze e credenze s’incontrano con il bisogno di gettare ponti, di spingersi al di là, di offrire all’immaginazione, allo stupore e alla poesia un cammino nel mondo.    

Berg und Gebirge als poetisches Motiv bei Claudian

Arte: Klinger, Kollwitz, Modersohn


Mario Bernardi Guardi, “Il sogno e il simbolo nutrono la creatività dell’incisore Klinger”, «Libero», 5 febbraio 2017.

Giorgio Bonomi ne scrive per la rubrica “Spigolature”, su «Titolo», rivista d’arte contemporanea edita da Rubbettino, n.14, estate-autunno 2017.

Ne hanno inoltre parlato sui loro profili e blog, Ofelia Sisca per «Mangialibri», Eleuterio Telese e «Toscana Eventi & News».


Paola Baratto, “Käthe Kollwitz, dal dolore alla responsabilità verso i giovani”, «Giornale di Brescia», 2 gennaio 2018.

Amedeo Anelli, “L’arte, l’uomo, la guerra: i pensieri di Käthe Kollwitz”, «Il Cittadino di Lodi», 8 febbraio 2018.

Rebecca Mais, su “beckyculturecorner.blogspot.com”, 17 dicembre 2018.


Leonardo Soldati, “Diario di Paula Becker. Vita e arte di una pittrice”, «Avvenire», 14 giugno 2020.

Paola Baratto, “Amo l’arte, voglio servirla in ginocchio perché mi pervada”, «Il Giornale di Brescia», 3 febbraio 2019.

Amedeo Anelli, “Quei pensieri sulla vita di una grande pittrice” «Il cittadino di Lodi», 1 marzo 2019.

Ne hanno inoltre parlato sui loro blog e profili, Daniela Distefano («Liberi di scrivere», 29 settembre 2019), Daniela Domenici («Daniela & dintorni», 24 gennaio 2019), Manuela Gatti, Giovanna Gheser, Antonella Lucchini («Mangialibri», ottobre 2019), Gian Ruggero Manzoni («Versante ripido», febbraio 2019), Mary Mazzocchi («Babele letteraria», giugno 2019), Chiara Romanini, Eleuterio Telese.