Magia sacra ed essere umano divino

Nella tarda antichità si assiste al diffondersi di un’idea di trasformazione magica – assente nelle religiosità cosiddette civili, figlie delle istituzioni – conseguita attraverso elaborati rituali di “morte” e “rinascita” a nuova vita. Tali credenze sono alla base delle dottrine misteriche in cui confluiscono molti aspetti filosofici e teologici dal neoplatonismo all’orfismo ai culti di matrice orientale, laddove la teologia stessa sconfina e si confonde per l’appunto con le pratiche magiche. Fra i maggiori coltivatori di queste ricerche attorno alle quali fioriscono numerosi studi, soprattutto all’inizio del Novecento, vanno indubbiamente annoverati Hermann Usener e Richard Reitzenstein (1902; 1904).

Abbiamo già avuto modo di soffermarci, parlando della longevità trasformativa che caratterizza la figura della Sibilla, sulla devozione popolare che organizza immaginari rituali propri, svincolati dall’ufficialità, vincendo e superando nel tempo il logorarsi delle liturgie di potere.

Col tramonto del mondo antico, stando alle più recenti conclusioni in materia di storia delle religioni, si è riscontrato come diversi culti siano oggetto di un processo di rinnovamento, saldandosi in una sorta di sincretismo convergente. In particolare, lo studio dei documenti della religione egizia in età ellenistica, con riferimento ai papiri magici e alle raccolte di preghiere più vicini alla devozione dei ceti bassi, restituisce un intreccio di influenze che mostrano con chiarezza quanto il cristianesimo stesso abbia attinto al misticismo ellenistico.

Se la storia della civiltà greca era dominata dall’antitesi tra la religione olimpica e le credenze misteriosofiche, quest’ultime veicolate principalmente dai santuari demetriaci e dalle comunità orfiche e pitagoriche, la cesura pare riassorbirsi nell’orizzonte concettuale del periodo tardoantico. Da un lato l’Apollo di Delfi, rigoroso e sanzionante sull’osservanza dei limiti e della separatezza tra natura umana e divina, dall’altro la saggezza iniziatica che ammetteva il superamento delle barriere fra mondo terreno e celeste, fluiscono in una corrente che conduce alla redenzione salvifica. D’interesse il risvolto sociale evidenziato da Eric Dodds (1965) in questa dinamica: una sintesi dottrinaria così definita rappresentava una risposta credibile all’angoscia e alla perdita di riferimenti che scuoteva le comunità dell’epoca.

Nella temperie che per sommi capi abbiamo qui ricostruito, magia e religione, lo si diceva all’inizio, non appaiono nettamente delimitate: Apuleio – pure finito sotto processo con l’accusa di praticare incantesimi per sedurre una ricca ereditiera – soffermandosi sulla natura dei Magi persiani ne rilevava la qualità sacerdotale. D’altra parte in latino il vocabolo sacerdos si applica sia al sacerdote che al mago; a titolo d’esempio si pensi all’esecutrice del rito magico per Didone nell’Eneide virgiliana (IV, 483).


Il myste, detentore della sapienza segreta nelle liturgie misteriche, era il mediatore fra corporeo e incorporeo, fra essenza terrena e ultraterrena. Nel Grande papiro magico di Parigi – il più lungo dei papiri magici pervenuti con le sue 36 pagine – è descritta l’esperienza estatica che gli consente di ritrovare in se stesso frammenti di una creazione spirituale dimenticata nelle profondità del proprio sé. L’estasi può essere suscitata attraverso diverse tecniche respiratorie, cosicché il pneuma diviene l’elemento chiave di congiunzione fra soffio individuale e respiro cosmico.   

La figura del myste o docheus o medium che dir si voglia è al centro della teurgia, comportando un allontanamento dalle premesse della teologia. Emblematico in tal senso lo scontro tra il neoplatonico Porfirio e il suo allievo Giamblico, autore di un commentario sull’opera di Giuliano il Teurgo, il poeta sciamano ispiratore dei misteri teurgici. Considerando i proseliti della scuola di Apamea fondata da Giamblico, si può sostenere che sul finire del III secolo d. C. l’idea che ai fini della comprensione del divino il pensiero razionale andasse di necessità integrato con rituali magici, fosse prevalente.

Questo patrimonio di concetti e credenze, qui brevemente elencato, risulta funzionale al pensiero umano fin dalle origini. Si pensi al rapporto fra magia e poesia, secondo cui in molte culture arcaiche talune espressioni classificate come poetiche, rientrano a pieno titolo nei formulari magici; rimandiamo in proposito allo studio insuperato di Anita Seppilli (1962; 1971).


In determinati momenti storici alcune idee sono assurte a nuova gloria, mostrando un’improvvisa vitalità e tenendo a battesimo altre stagioni, quando si ritenevano ormai morte e sepolte. Ciò è utile a comprendere una volta di più la straordinaria continuità dell’immaginario collettivo, quel coacervo di pensieri convidisi dalle varie generazioni su un arco di tempo lunghissimo. Pensieri che ognuno di noi può avvertire sul proprio cammino, in risonanza con il proprio inconscio, volendo adottare la griglia interpretativa junghiana che meglio ha saputo orientarci in mezzo a tali primitive testimonianze. La percezione di familiarità e perfino di consuetudine quando ci chiniamo su certi frammenti dell’essere e del divenire umano, anche se ci separano i millenni, viene da una comune radice dell’anima. È un percorso affascinante nella storia ma anche nel tempo infinito del sé, che offre un senso compiuto alla nostra vicenda terrena come qualcosa in cui la materialità sfuma e si trascende volgendosi al magico e al sacro.    


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La mostra “Creature fantastiche: il mito prende forma” al Museo di Storia Naturale del Mediterraneo di Villa Henderson a Livorno, sulle espressioni dell’immaginario umano dall’antichità al Novecento, sarà aperta fino al 31 ottobre 2025.

* Alcuni dei temi trattati in questo articolo sono alla base della mia raccolta poetica d’esordio:
Claudia Ciardi, Umana Sibilla, con una prefazione di Daniele Regis, Setart Edizioni, aprile 2025

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Oracles, metaphysics and Poetic Pilgrimages

By divine nature and poetry / Per natura divina e per poesia

Sibille delle isole e relazioni culturali

Pochi territori al mondo favoriscono il confronto e la commistione culturale come le isole. Si potrebbe pensare il contrario, in quanto luoghi talvolta inaccessibili, spesso lontani dalla terraferma e, come per l’appunto ci ricorda il sostantivo che le designa, isolati. Invece, è proprio qui che le diversità approdano e convergono, dando vita a modelli peculiari, resistenti, inattesi. Su un carattere intriso di indubbi tratti conservativi, tant’è vero che simili ecosistemi, laddove il turismo non sia arrivato con i suoi flussi eccedenti, tendono a mostrarci qualcosa di perduto, si innesta anche un’attitudine all’apertura, all’interazione. Questa fluidità isolana instaura confini mobili nello spazio e nel pensiero in un processo inverso rispetto al continente.  

Proseguendo la nostra ricognizione sulla Grecia antica, le isole ci si offrono come osservatori privilegiati di tali dinamiche. In età alto-arcaica molti di questi ambienti ospitano comunità miste e i santuari, soprattutto, divengono centri di assimilazione religiosa e culti condivisi, nonché strutture di riferimento per la comunicazione interculturale. Riprendendo una definizione più che calzante di Lewis Mumford (1961), nei santuari greci si dispiega l’incontro con gli altri e, dunque, «un nostos verso le proprie radici», ossia un processo di ritorno e recupero identitario da parte dei nativi.

Ciò è comprovato dall’osservazione di due classi di fenomeni in particolare: l’elaborazione di un linguaggio sacro relativo alla sfera santuariale da parte di una comunità mista insediata su un’isola; la dedica di oggetti votivi nei santuari locali. Sono le tematiche a cui lo storico e antichista Giorgio Camassa ha dedicato un ciclo di saggi raccolti in un volume che nel titolo evoca, non a caso, la figura della Sibilla. Negli articoli precedenti si è dato rilievo alla natura sibillina come elemento sovrastrutturale, figura tratteggiata da un immaginario collettivo svincolato, non istituzionalizzato coevo alla movimentata temperie dell’ellenismo arcaico. Per inciso, la sua collocazione a Samo o nell’Ellesponto – secondo le numerose genealogie ex post – confermano nella geografia il sentimento di naturale vicinanza a orizzonti irrequieti e frammisti che si accompagnano a questa creatura sacra. La Sibilla giudaica, frutto delle tensioni storiche che investono la compagine mediorientale fra il III e il II secolo a. C., incarna e rovescia i codici oracolari della tradizione, riflettendo il punto di vista delle comunità ellenizzate. Siamo ancora una volta di fronte a una testimonianza spirituale che accentra in sé un destino storico. Il distacco fra le comunità ebraiche di Alessandria e Gerusalemme in cui si inseriscono le mire dell’impero romano sulla regione offrono uno spaccato della convivenza fra l’etnia greca, egiziana ed ebraica oltre a richiamare la nostra attenzione sul perpetuarsi dell’incontro-scontro tra Asia ed Europa, fra Oriente e Occidente. Proprio il ricorrere di questo motivo costituisce l’ossatura degli Oracoli Sibillini ben prima del I secolo a. C., periodo al quale vengono di solito riportate le sezioni di testo del terzo libro, il più composito e stratificato della raccolta e dove maggiormente si esprime la visione del giudaismo ellenistico in Egitto.  


Ricordo per inciso la mia narrazione dedicata alla biblioteca alessandrina presentata all’inizio dell’anno al Museo italiano di scienze planetarie di Prato, attraverso cui mi sono soffermata sull’Heraion di Samo e le vie commerciali e sapienziali aperte lungo questa rotta con la città tolemaica. In un resoconto riguardante la fioritura umanistica e scientifica – dall’astronomia alla medicina – negli stessi anni in cui si era intrapresa la costruzione del faro e il medico Erofilo disegnava il primo abbozzo del sistema vascolare umano, ho dato risalto proprio agli aspetti dell’incontro e del meticciato culturale. Una condizione che non significa assenza di attriti o di fasi conflittuali. Rappresenta tuttavia un’atmosfera di grande interesse per ciò che si diceva in apertura sulle interazioni plurisecolari nelle frontiere isolane e nei territori costieri.  
Tornando, sempre a tale proposito, alle trattazioni di Camassa mi sembra di non secondaria importanza l’esercizio sulle fonti a cui ci invita. Nel confronto tra arcaismo ed ellenismo, che abbiamo toccato nel presente articolo a partire dagli sconfinamenti identitari e dalla loro riaffermazione, è importante non liquidare la fonte letteraria tarda come meno veritiera. Pensare quest’ultima come poco attentibile in quanto lontana dal periodo in cui una tradizione si è formata, è un argomento blando. In questo metodo risuona anche la lezione di Silvio Ferri che abbiamo precedentemente analizzato e che ci permette di abbracciare in modo meno pregiudiziale e con maggior successo i molteplici aspetti mitologici e rituali di cui si compone un frammento del passato, specialmente per quel che concerne le figure del pensiero, le mentalità, integrando tradizioni orali, archeologia e opere d’arte. Solo così e ragionando sul tempo in termini duttili, porosi, all’occorrenza incoerenti è possibile farsi un’idea del cammino avventuroso e affatto lineare degli esseri umani e dell’impronta che la loro immaginazione ha lasciato in eredità al mondo.

🌏«L’utilità della geografia, intendo dire, presuppone che il geografo sia un filosofo, un uomo che impegna se stesso nella ricerca dell’arte di vivere, o detto in altro modo, della felicità». (Strabone, Geografia, I, 1, 1)
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Academia.edu – Il desiderio del divenire stelle / The desire of becoming stars

I volti del sacro nel mondo antico / The faces of the sacred in the ancient world. My lecture on YouTube with English subtitles

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Claudia Ciardi, Umana Sibilla, con una prefazione di Daniele Regis, Setart Edizioni, aprile 2025

Dalle “Lettere del veggente” di Rimbaud

Una piccola premessa sull’epifania di questo libro. Lo possiedo da tempo, affiorato e scomparso a intervalli regolari negli scaffali della libreria. Appartiene a una tiratura fuori stampa di Einaudi, un regalo ai lettori distribuito in ventimila copie una quindicina di anni fa. Sono una dei ventimila destinatari; se mi ha raggiunta non è stato per caso. L’intuito mi ha sempre suggerito che prima o poi quelle pagine avrebbero parlato compiutamente a un’altra me e, dunque, non dovevo separarmene. L’idea della veggenza in poesia mi affascinava già allora ma ancora mi sfuggiva come quel messaggio potesse saldarsi sul mio percorso. O meglio, il percorso era stato appena intrapreso tanto che non potevo neppure capire dove mi trovassi. Ma proprio per le cadenze sottili e inesorabili che la vita silenziosamente ci riserva, eccolo ora reclamare le mie attenzioni. E io subito gliele ho accordate, bevendo ogni sorso, sicura che nulla avrei sprecato di quel calice.


Così mentre impacchettavo dei libri per il book-crossing ospedaliero, mi è tornato fra le mani. “Aprimi! Sono medicina”. Vero, la poesia lo è senz’altro, anzi preferirei dire medicamento, vocabolo più desueto che meglio sembra trattenere la sostanza curatrice. E poi, sì, fa diventare anche veggenti se davvero lo vogliamo. Parola di Arthur Rimbaud, che quando vergava queste frasi aveva appena diciassette anni. Erano i giorni della Comune di Parigi e il giovane scalpitava per salire sulle barricate. I destinatari delle sue confessioni sono Georges Izambard, insegnante di retorica, e Paul Demeny, poeta. Le sponde offerte dai due interlocutori favoriscono l’invettiva contro la cultura morta dell’erudizione, l’apostrofe rivolta allo studioso da scrivania che dimentica il mondo ma ha la pretesa di spiegarlo. Chi compila dizionari è un accademico, dunque un fossile, mentre il poeta percepisce tutto, tocca la parola viva in cui è depositato ogni sentire, perciò suo compito è definire l’ignoto che si risveglia, far stillare resina e sangue dall’anima universale. «Tutta la poesia antica porta alla poesia greca. Vita armoniosa. […] In Grecia, dicevo, i versi  e le lire ritmano l’azione. Dopo, musica e rime sono giochi, divertimenti. Lo studio di quel passato affascina i curiosi: molti si divertono a rinnovare queste cose antiche: è roba per loro. L’intelligenza universale ha sempre gettato via le sue idee, naturalmente; gli uomini raccattavano una parte di questi frutti del cervello: agivano con loro, ci scrivevano dei libri: così andavano le cose, poiché l’uomo non curava se stesso, non si era ancora risvegliato, o non era ancora nella pienezza del grande sogno. Funzionari, scrittori: autore, creatore, poeta, quest’uomo non è mai esistito! Il primo studio dell’uomo che vuole essere poeta è la conoscenza di se stesso, intera: egli cerca la sua anima, la scruta, la mette alla prova, la impara».

Ma come avviene una tale immersione, questo inabissarsi senza ritorno? Non è un atto pensato, si tratta piuttosto di un divenire. Farsi veggenti è una condizione non una decisione. D’altra parte, essere fino in fondo comporta una discesa all’inferno come il farmaco che cura è anche veleno. Evitando l’esperienza straniante e dolorosa, nulla accade. Non c’è creazione né guarigione. Si resta a un grado frammentato e incosciente, che preclude qualsiasi capacità sensitiva, nascosti al vero sé. Allora e solo allora «queste poesie saranno fatte per restare. In fondo sarebbe ancora un po’ la poesia greca». Poesia come sguardo lucido gettato sull’ignoto, questo per Rimbaud è il coraggio della precognizione, risanamento della ferita che ha separato l’uomo dalla scintilla divina. Non a caso il cantore e l’autore di versi erano considerati dagli antichi prossimi ai profeti, alle personalità in grado di formulare la parola del Dio attraverso gli oracoli. Una caratteristica basata sullo “sregolamento di tutti i sensi” che, nei termini espressi dal poeta francese, ricorda da vicino la possessione di indovini, Sibille e altre figure sacre. Un livello di penetrazione e limipidezza intuitiva scomparsi dalla storia del pensiero umano e dai modi di comunicare, con particolare riferimento al dire poetico, per tornare in auge con il romanticismo. A questo proposito sarà utile la Theophania di Walter Friedrich Otto per aiutarci a navigare fra sentimento e interpretazione dell’antico. Il divino era per i nostri predecessori realtà esperita, non un’astrazione bensì un fatto, una presenza reale che aveva determinato veri accadimenti, cosicché il culto e il mito non erano a loro volta semplici rappresentazioni ma emanazioni in cui il fatto riviveva. Allo stesso modo la poesia lirica greca rispecchiava un’esperienza non filtrata in cui la natura e il tempo vissuto si riversavano senza disperdere il loro carico emotivo che il poeta, come medium fra la terra e le cose celesti, raccoglieva con sensibilità limpida e profetizzante. Fu questo il primo genere letterario a far presa fra gli Elleni, in assenza di un sistema espressivo codificato, precedentemente e diversamente dall’epica con cui non smetterà di confrontarsi, soprattutto nel mezzo dei profondi mutamenti politici e sociali a chiusura dell’VIII secolo a. C. Un’apparizione, lo si è detto, che si confonde con le voci degli oracoli e con i primi oscuri autori dei cosiddetti nòmoi, componimenti pure a tema religioso, dei quali nulla resta.  

Rimbaud teorizza un nuovo avvento in cui essere e sentire siano interi e saldati. Qui sgorgherà la parola pura tratta dall’anima universale. Qui si attingerà alla pienezza del grande sogno, quale forma concreta di ogni immaginazione. Il tono è perentorio, perché chi è destinato non accampi scuse: «Dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia; egli cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni per conservarne solo le quintessenze. […] Poiché egli arriva all’ignoto! Avendo coltivato la sua anima, già ricca, più di chiunque altro! Egli arriva all’ignoto, e anche se, sgomento, finisse col perdere la comprensione delle sue visioni, le ha viste».

Il poeta è uno che ha visto, con una capacità visiva che ha squassato tutti i sensi. Dunque sa. E il suo sapere porta nel mondo il respiro abissale ed estremo dei reami sommersi in cui occultamente si è inoltrato.         

Nefomanzia – A pink glow amidst the dark

* Una precisazione per chi cerca i miei libri nello Store online di Mondadori. In seguito all’aggiornamento del sito, la rete si indirizza alternativamente a un link corretto e uno errato; quest’ultimo non permette la visualizzazione dei titoli acquistabili sotto il mio nome. Segnalo pertanto il collegamento corretto a chiunque voglia raggiungermi, auspicando che gestori e motori di ricerca risolvano il problema.
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Claudia Ciardi, Umana Sibilla, con una prefazione di Daniele Regis, Setart Edizioni, aprile 2025

Ierogamia e psichismo della Sibilla

Sulle tracce degli studi compiuti da Silvio Ferri, proseguiamo ad addentrarci nel mistero della Sibilla, tentando una restituzione della sua identità religiosa e della sua personalità divinante. Questo tipo singolarissimo e longevo di donna provvista di estrema intuizione e saggezza, qualità infuse dal dono profetico apollineo, ha radici nella devozione popolare greca in un tempo che sfida la rigidità dei limiti cronologici imposti dagli esegeti. Contemporanea o di poco successiva all’arte dei cantori – è un fatto che Omero non ne faccia alcuna menzione tra i suoi versi – sicuramente antecede l’insediamento della Pizia a Delfi.

Quest’ultima è infatti figlia di un processo di istituzionalizzazione del culto, inserita in un collegio sacerdotale e in una pratica cerimoniale che prevede l’utilizzo di specifici strumenti divinatori nonché di un codice comunicativo per trasmettere il responso. Sibilla è il suo alter ego, diciamo così, più libero, nelle cui vene la religiosità arcaica scorre senza compromessi né censure dettate dagli apparati pubblici. Sul piano della ricerca ci offre pertanto la possibilità di esplorare un fenomeno inerente alla sfera sacra svincolato, non intorbidato, a uno stadio più primitivo non solo in termini storici ma anche sotto il profilo umano.

Dunque, quali sarebbero gli indizi salienti, i cosiddetti marcatori, che fanno della Sibilla un resto emblematico di un atteggiamento psico-religioso esteso e capillare nelle credenze della Grecia antica?

Hieròs gámos (ἱερὸς γάμος), l’unione sacra col dio, veicolo di catochè (κατοχή), la possessione da parte dello sposo divino. La ierogamia non era affatto intesa come mero contatto dello spirito; è questa semmai una lettura influenzata da una cultura più tarda. Per gli antichi l’avvicinarsi del dio corrispondeva a un atto carnale, che decretava la sua sposa e perciò destinataria delle capacità profetiche. L’atto sessuale offriva il dono della predizione che si esercitava senza alcun mezzo, senza altro tramite che la presenza del dio stesso nel corpo della Sibilla. In quanto prescelta, era la custode di tale traccia celeste dovuta all’unione carnale e mistica.

Quanto alla possessione, che nel caso presente si riconduce alla follia mantica, secondo quanto stabilito su questo argomento da Platone nel Fedro, esprime quel legame dinamico spesso scientificamente accertato fra la religione e l’amore. Anzi, nella sistemazione platonica, delle quattro forme di follia (mantica per dono di Apollo, telestica causata da Dioniso, poetica, erotica), quella d’amore è più nobile, intrisa di meno ambiguità rispetto a tutte le altre. Eros infatti sarebbe fra le divinità il mediatore per eccellenza, colui che più è capace di riavvicinare il mortale e l’immortale. L’innamorato, sotto l’effetto rivelatore del dio, grazie alla reminiscenza ottiene la massima visione della bellezza corporea e la contemplazione delle forme intelligibili; torna a sentirsi come quando l’anima preesisteva al corpo nel mondo delle idee.  

Per un’accurata discussione di tali temi si rimanda al capitolo di Luc Brisson, Del buon uso della sregolatezza in Divinazione e razionalità, a cura di Jean-Pierre Vernant, Einaudi, 1982.

Due ritratti in cui appare evidente l’ispirazione ai connotati della Sibilla
📌 Timashevskiy Orest Isakovich, Girl of Italy, XIX sec. 📌 Francois Joseph Navez, Portrait of a woman with a turban, 1826

Sibilla vaga da sola, divaga e si ricostituisce ovunque l’immaginario popolare intenda riservarle uno spazio. È propensa al sincretismo, tratto estremamente vistoso nella sua assimilazione all’interno del mondo romano, dove non a caso cumula in sé gli aspetti della Pizia greca. Riferimenti in questo senso si trovano ad esempio nelle Metamorfosi di Apuleio.

Spesso gli interpreti moderni si sono concentrati di preferenza sulla Pizia, trascurando o fraintendendo il carattere sibillino, solo perché come spiega bene Silvio Ferri si tratta di una creatura più vistosa e meno complicata. Qui opera diffusamente, e la Sibilla ha il merito di mostrarcelo in controluce, un tipico pregiudizio sul mondo greco antico che ha inibito per molto tempo l’ammissione di forme superstiziose proprie di un culto ellenico popolare.

Concludendo, l’universalità della Sibilla, in quanto resto meno cristallizzato e più sfuggente dell’antico, le ha permesso di sopravvivere alla fine del mondo greco e romano per riemergere insieme all’enigma del suo potere sacro in epoca medievale e rinascimentale. Qui le sue caratteristiche si fissano nella cosiddetta Sibylla sapiens, figura sapienziale e afflitta, pur continuando a pulsare entro il suo cuore la polimorfia che lì l’ha condotta. Qualcosa che si avverte in sottotraccia e non smette di interrogare i suoi devoti, anche fra gli insospettabili adepti contemporanei.

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Claudia Ciardi, Umana Sibilla, con una prefazione di Daniele Regis, Setart Edizioni, aprile 2025

La Sibilla negli scritti di Silvio Ferri

Prima di entrare in argomento una premessa è d’obbligo. Non con intento polemico ma per necessità di constatazione. Lamentiamo spesso l’incoerenza, la spaventosa noncuranza del nostro tempo. Ebbene, per comprendere quanto caotiche siano di fatto le nostre vite e, di riflesso, i luoghi in cui ci aggiriamo consiglio un semplice esperimento. Provate a leggere un centinaio di pagine di filologia classica e storia delle religioni all’aperto; vi illudete di sistemarvi in giardino o in un luogo tranquillo ma non troverete quiete in nessun momento. I rumori di fondo, ininterrotti, generati dalle più disparate (disperate!) attività stringeranno d’assedio la vostra concentrazione. E poi, più impegnativa la materia, più intensa la sensazione di perdersi.   

Chi dunque resiste ancora? Il lettore è ormai un’individualità respinta, scoraggiata. Forse, quando si parla di disaffezione nei confronti dei libri, bisogna mettere in conto anche questo. Non si tratta di un effetto secondario, perché se la sottrazione di spazio e di tempo a tutto quello che tende a farci ricordare chi siamo è pressoché continua, poco rimane.  

L’altra desolante verità è che non siamo più i figli di una società del silenzio. Un’orfanezza che, chinandosi sulle voci del mondo antico, il quale ancora aveva ben cari e sacri i suoi silenzi soprattutto, si avverte in misura perfino maggiore.

E vengo finalmente alla Sibilla di Silvio Ferri, classicista e archeologo originario di Lucca, che scrisse queste pagine, bisogna dirlo, fra il ’14 e il ’15. L’Italia entrava in guerra, e non si può dire che gli esseri umani non fossero immersi nelle loro turbolenze. La quiete della terra venne guastata per molto tempo, ben al di là anche del concludersi del conflitto. Tuttavia l’intento di preservare certe sensibilità non vacillava. Tali figure di studiosi, profonde e integre, dimostrano nella limpidezza del metodo, nel perdurare delle loro lezioni una volontà ferma e perfino soccorevole nei confronti di ciò che avrebbe potuto salvarci dalla dispersione. 

In scia a Brelich e De Martino, interpreti acuti nonché maestri di sintesi destinate ad aprire vie nuove negli studi, Ferri dà un saggio delle sue metodologie cimentandosi non a caso in una rappresentazione della Sibilla, senz’altro la questione più complessa nella storia della religione greca. Gli preme mostrare come un argomento sfuggente e per molti versi contraddittorio, riesca a farsi osservare in una luce appena più nitida, se solo non si smarrisce l’idea di base che orienta la propria riflessione. Mentre passa in rassegna le fonti, antiche e moderne, ne discute le storture lasciando galleggiare quei punti saldi che via via vengono a disegnare l’arcipelago del suo pensiero. Il lettore, anche profano riguardo l’antichità, si addentra in tale discussione sentendosi accompagnato, addirittura dopo qualche pagina calandosi agilmente nel modus operandi dell’autore.

Dal rilievo fondamentale del distacco fra tradizione leggendaria e artistico-letteraria alle peculiarità esclusivamente italiane del racconto, alle biforcazioni continue tra storicità e idealizzazione della profetessa, Ferri ci permette di avvicinare e rendere comprensibile quello che diversamente si nasconderebbe sotto la goffaggine di una mano non sistematica. Sibilla è una creatura che si riveste di molti panni e personalità, culturali e cultuali, attraversando diverse aree e fasi storiche che dal cuore ellenico-orientale la conducono alle rive latine e medioevali dell’occidente. In questa immutata mutevolezza si disfa e rinasce una figura idealizzata ma anche incarnata; non v’è dubbio infatti che «nella memoria, nella leggenda, nella definizione filosofico-teologica la Sibilla ama rivivere contemporaneamente nella sua spoglia materiale di donna». (S.F.)

In quell’epoca piena di promesse che va dall’VIII al VI sec. a. C., di poco successiva alla poesia omerica e subito antecedente all’elaborazione filosofica, ecco apparire nella devozione dell’antica Grecia un germoglio mistico al di fuori della cosiddetta religione di Stato, in rappresentanza forse di un credo popolare che proiettava su tali donne una forma di sapienza e grazia divina. La longevità da cui Sibilla è rinata nell’ebraismo e nel cristianesimo, divenendone ipostasi e messaggera, attesta come il sostrato delle sue origini abbia i piedi ben saldi in un ampio immaginario collettivo.

Profetessa degli dei e profetessa del figlio di Dio, senza soluzione di continuità, nel segno di un simbolismo imperituro e risorgente. Si pensi all’acrostico ἰχθύς (pesce), più o meno accettato interamente dalla letteratura patristica, con la sua straordinaria evocazione di immagine-parola, e la risonanza poetica che reca in sé.

Lo scritto di Silvio Ferri ha il pregio di interrogare il passato e interrogarci, quasi replicando nel suo impianto l’essenza stessa del proprio oggetto. Come la Sibilla, non si compie né compone, non si esaurisce del tutto, e in tale fuggevolezza consiste per l’appunto la più vivida traccia della sua identità.


* Un doveroso appunto sul mio lavoro. Vedo che l’IA di google associa la mia opera a Una donna di Sibilla Aleramo. Posto che il parallelo mi onora, andrebbe tuttavia preso molto alla larga. Tanto più che all’interno della sinossi viene riformulato meccanicamente quanto arbitrariamente un giudizio approssimato e poco felice all’indirizzo del romanzo della Aleramo, che sembra perciò riferirsi anche alle mie poesie. Si tratta di un’informazione fuorviante, ci tengo a precisarlo. Al di là del fatto che pure nella mia esperienza personale, dunque in linea con la tradizione contemporanea, la Sibilla incarna un modello femminile di forza e indipendenza, la raccolta poetica di cui sono l’autrice poggia su basi differenti, fondate come detto nell’immaginario antico. Dunque, se volete conversare con me a proposito del mio libro, scrivetemi. Avrò il piacere di raccontarvelo.

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Claudia Ciardi, Umana Sibilla, con una prefazione di Daniele Regis, Setart Edizioni, aprile 2025

Parola e guarigione

Museo delle Genti d’Abruzzo_Pescara

Nel V libro dell’Odissea il naufrago Ulisse vive uno dei momenti più duri del suo viaggio. Crede ormai che la morte sopravvenga senza alcuna possibilità di scampo. È il libro della massima sofferenza fisica e psichica dell’eroe, qui ridotto a corpo sofferente – il poeta indugia sulla pelle scorticata e il sanguinamento a causa dell’urto con gli scogli, ma anche sulla volontà annientata dai pericoli soperchianti. Ormai non crede più in nulla, sospettoso perfino degli dei che vede come creature inaffidabili, interessate solo a realizzare le loro trame, privi di qualsiasi scrupolo specie se ciò comporta il sacrificio dei mortali. Così quando Leucotea, nell’aspetto di un gabbiano, viene a porgergli il velo magico per vincere la tempesta e raggiungere la riva, Ulisse pensa a una minaccia. Solo nell’attimo in cui capisce di non avere più scelta, si decide a seguire il consiglio della dea che lo condurrà all’insperata salvezza.

Il vero snodo narrativo dell’Odissea si gioca in questi versi. L’eroe prostrato e messo a nudo – alla lettera perché raggiungerà la riva dell’isola dei Feaci stremato e senza vesti – ha sanguinato dalla sue ferite, ha toccato il fondo, smarrito il vigore fisico e mentale. Proprio per questo è finalmente pronto a incamminarsi sulla via del ritorno che coincide con la sua guarigione. Ma perché avvenga deve attingere a quel residuo desiderio di riscatto che ancora, pur debolmente, lo scuote.   

È uno dei temi di cui mi sono occupata nella mia raccolta poetica d’esordio, Umana Sibilla, edita da SETART, dove non a caso richiamo alcune immagini salienti tratte dai poemi omerici e l’idea del viaggio, volto alla riunione con qualcuno e al cercare se stessi, come metafora. 

Un filone che da tempo intride la mia esperienza personale e, dunque, la mia teoria letteraria. La parola poetica, a partire dalle sue lontane evocazioni oracolari, è figlia o sorella dei formulari magici, recitati o cantati. È perciò depositaria di un potere manifestante, trasformativo e terapeutico. Ne ho parlato un paio di settimane fa nel corso dell’appuntamento con Costa Edizioni, a Pescara, per il premio assegnato al mio saggio Presentire e curare. I divini doni della poesia, parte di un ciclo di lavori con cui ho inteso analizzare i nessi qui brevemente esposti.

Se dalle ferite può infine scaturire la luce, come più volte ho sentito ripetere nel corso del nostro evento, e se l’arte ha il dono di trascendere il dolore e di agevolare questo processo, forse proprio il linguaggio cadenzato, rammemorante, lirico è uno degli strumenti chiamati a essere più rivelatori in tal senso.

Ogni sillaba pronunciata può divenire terreno di affermazione, spazio guadagnato nel superamento della tempesta, quindi scintilla liberatoria.

Regine in rosso.
Regine di grazia e forza emotiva.
Spose cerimoniali, Sibille, presenze profetiche.

Walking among the blooms in a healing place

Fotografie di Claudia Ciardi ©

Sul potere terapeutico della parola – Cenni al mio percorso saggistico (Tumblr)

Dissertazioni su terapia e parola/ Dissertations on therapy and speech, 2025 (Academia.edu)

Claudia Ciardi, Umana Sibilla, SETART Edizioni, aprile 2025

Io sono molte

Si dice “intuito femminile” ed è chiara in questa espressione l’idea di presentimento e poesia associata alla natura delle donne. Spesso l’arte le rappresenta come figure sacre, siano religiose, profetesse o guaritrici, ritenute depositarie di poteri in grado di allieviare, strappare alla sofferenza, medicare o risanare.

Pre-sentimento è ciò che si sente prima, il vago presagio che annuncia qualcosa e che si fa strada in noi senza percorrere le vie logiche. Un sentire che non si lascia afferrare né decifrare compiutamente ma c’è. Per natura la donna pare più incline ad accogliere in sé questi segnali e a riconoscerli in ciò che si muove intorno a lei.

Se è vero, come è vero, che l’intelligenza senza la sensibilità non porta lontano, il femminile sembra consacrato all’unione di questi due aspetti perché esprimano al massimo grado la loro forza vitale. 

Avvolte in rossi panneggi, simbolo di audacia, passione, sensualità, fra libri e oggetti magici, la pittura ne celebra il mistero e i tesori che portano nel mondo come ritratti di Sibille e regine, maghe o artiste.

Il rosso e il bianco, la veste scarlatta, il candore dei turbanti, il sangue e il marmo, il cuore offerto alla poesia, le venature della pietra.

Opere diverse per epoca, stile e soggetto, eppure attraversate da una vibrante energia che anima un immaginario comune e longevo.

Orazio Gentileschi, Ritratto di giovane donna come Sibilla (1620 circa), la modella del dipinto è sua figlia, Artemisia Gentileschi.
Dalla mostra genovese “Artemisia Gentileschi. Coraggio e passione”, 2023-2024
Fotografie di Claudia Ciardi ©

Ginevra Cantofoli (Bologna, 1618-1672), la pittrice delle Sibille

  1. Diego Velázquez, Sibilla con Tabula Rasa,1648, Meadows Museum, Dallas, Texas; 2. Dettaglio della Sibilla Libica (The Libyan Sibyl, 1867) di William Wetmore Story, scultore statunitense morto a Vallombrosa


Il mio libro di poesia dedicato a questi temi, “Umana Sibilla”, pubblicato da SETART Edizioni, Aprile 2025

Acquistabile al seguente link/ On sale here:
https://www.setartedizioni.it/product/umana-sibilla/


Sul mio canale Youtube/ On my Youtube channel

With the good omen of the Sibyls!

«Una vita nuova di poesia e di sogno»

Prendo in prestito le parole che Cesare Pavese rivolgeva alla sua amata, o forse a un’idea di amore letterario e superno, un rigo in cui risuona peraltro anche la traccia dantesca dell’aspirazione a una vita mutata in virtù dell’esperienza sentimentale, per gettare qualche appunto sulle mie ultime divagazioni. In un ciclo di saggi di teoria linguistica in accompagnamento alla mia opera poetica, mi sono riaffacciata alle suggestioni della saggezza oracolare ellenica e alla dimensione dei santuari come centri di cura, in cui la parola era un’espressione della volontà teurgica del dio.

Si dice che questa presenza scendesse nel cuore, l’organo della risonanza, e da qui dettasse i propri responsi al suo messaggero terreno. Di solito una figura femminile che si riteneva dotata di particolari attitudini sensitive. In tale manifestazione subitanea e incontrollata del divino si può cogliere forse una prima ombra della poesia, il suo primo spirito – nel senso etimologico di spiritus, respiro. Soffermarsi, accordare il proprio soffio vitale a queste cadenze, è un po’ risvegliarsi a nuova vita, abbracciando sensibilità di segno opposto rispetto alla nostra quotidianità.

Nel ripercorre simili tracce mi è capitato di sfogliare il resoconto di Dino Baldi sulle strutture sacre che in Grecia hanno visto il compiersi di guarigioni e prodigi. L’autore definisce il suo sguardo un «gioco paradossale della Grecia fuori dalla Grecia». Sempre per quel cortocircuito fra pensiero e realtà da cui l’Ellade agli occhi dei puristi era «un paese abitato da slavi bizantinizzati e corrotti dall’Oriente». Il viaggiatore che vi si fosse avventurato, anche in tempi non sospetti, molto prima della cosiddetta decadenza imperiale e levantina, correva serio pericolo di restare deluso quando ad andarne di mezzo non fosse la sua incolumità. Il poeta Virgilio, già minato nel corpo, non solo non trovò quello che pensava ma poco dopo essere sbarcato al Pireo rimediò un’insolazione che gli fu letale; a Byron secoli dopo non andò meglio.

Cosa cela dunque ancora questa terra misteriosa, affascinante e tremenda, che si tiene tutto per sé?

«Prima di tutto gli oracoli, porte di comunicazione fra dei e uomini; ma anche i luoghi che i greci, senza distinzione di etnia, riconoscevano come patrimonio comune e rappresentativo della propria identità: i santuari e le sedi dei giochi panellenici». (Dino Baldi)
I resti di un tempo in cui terreno e ultraterreno si cercavano e riuscivano a incontrarsi, anche senza cercarsi, dove mitologia e rituale riempivano di senso l’ordinarietà.

E oggi? Ci sono i greci del Ponto e quelli dei Balcani. E c’è una ruvidità di fondo nel carattere greco – intensità e asprezza – in cui anch’io mi ritrovo. Indocile fierezza si potrebbe dire, un temperamento sfaccettato con cui è difficile fare i conti e che mi suscita un’immedesimazione profonda. Scherzando con la mia amica Androniki mentre mi preparava il caffè e, prima ancora del caffè, il beneugurante dolcetto dell’accoglienza, le dicevo che la nostra complicità era senz’altro il frutto di una vita precedente. Di sicuro ci eravamo incontrate in un bosco della Tracia o giù di lì. Due indomite, polemiche, sognatrici. L’esperienza tutt’altro che tranquilla con la Grecia moderna, che per inciso è figlia di una dominazione turca di quasi cinque secoli dal notevole riverbero anche nella lingua, mi ha forse costretta precocemente a prendere le distanze dal perfezionismo apollineo. E con ciò a guardare più a fondo anche in me stessa; le somiglianze con il carattere contraddittorio e tumultuoso erano ben più di quelle, insussitenti, con gli scatti da cartolina. Qualcosa di ben lontano dai tratti ideali e idealizzati, dalle radiose sintesi dei manuali, dal candore dei reperti. Una landa propensa all’enigma e alla fatalità, che attrae un’epica di delitto, castigo e rinascita, dove nel sangue versato non si fa largo solo la morte ma un divenire estremamente vitale e contraddittorio di creature ribelli, esseri magici destinati a imprese sconcertanti e magnifiche, in cui non per caso un giorno dagli zoccoli di un cavallo è scaturita la fonte dei poeti.

Dino, Baldi, Marina Ballo Charmet, Oracoli, santuari e altri prodigi. Sopralluoghi in Grecia, Quodlibet Humboldt, 2013

Si rimanda anche al mio promemoria su Linkedin – Shrines and Healing

L’Amaryllis di Niki e il nostro comune sogno greco in arte e poesia

Claudia Ciardi: «Revue européenne de recherches sur la poésie», Classiques Garnier, Parigi, n° 10, 2024, pp. 275-285: Oracoli e poesia. Voci sacre all’origine del mondo. L’esordio della poesia nelle pratiche oracolari e il potere terapeutico della parola

Donne nell’arte, donne per l’arte

Espressioni volitive e sguardi penetranti. Le donne nell’arte irradiano una bellezza metafisica, un’energia incontenibile, talora perfino destabilizzante. Ritratte nei panni di pittrici, o più spesso autoritratte, esaltano la conquista di un ruolo, fra emancipazione sociale e riscatto personale. Dipinte nelle loro attività quotidiane o in un attimo di intimo raccoglimento possiedono un’aura di curatrici, sensitive, maghe, benefattrici. In altre occasioni sono giustiziere e guerriere, incarnazioni mitologiche di un desiderio di rivalsa. 

Se il cammino dell’autorealizzazione femminile è in ogni ambito irto di ostacoli e battute d’arresto – quando non di imbarazzanti regressi – è pur vero che fin dall’antichità vi sono state zone franche, dove la donna ha trovato non solo mezzi per eludere la sorveglianza ma anche soprendenti vie aperte all’azione. Il fascino di questa storia risiede per l’appunto in tale moto oscillatorio nel quale si determinano ribaltamenti impensabili, uno scorrimento della sorte cui di rado si assiste ad altre latitudini dell’umano.     

L’universo femminile pare destinato a rimanere sospeso fra orgoglio e pregiudizio, ma può accendersi all’improvviso, ammantandosi di un che di leggendario. Un potere coinvolgente ma anche perturbante all’estremo, in grado di sconvolgere qualsiasi pronostico.   

La mostra “Roma pittrice” nella sede di Palazzo Braschi in Trastevere, visitabile fino al 23 marzo 2025, permette di approfondire l’avventurosa vicenda delle donne intente ad affermare la propria creatività intercettando le prestigiose committenze romane fra il XVI e il XIX secolo. Una rassegna approfondita alla riscoperta di personalità dimenticate se non sconosciute, che si dipana come un ricco itinerario nei luoghi salienti della cultura capitolina, con un’attenta mappatura della collocazione degli atelier. Gli studi delle artiste risultano per lo più concentrati al Pincio né sono rari i casi di ospitalità concessa da ecclesiastici, come per i locali messi a disposizione in San Lorenzo in Lucina. Una geografia fisica e sentimentale sulle orme di 56 artiste che hanno contribuito alla costruzione del sistema della arti nella Roma moderna.

Un altro santuario vibrante di presenze femminili è il Museo dell’Ottocento di Pescara. Come già nel corso della mia visita all’omonimo museo bolognese o alla Ricci Oddi di Piacenza, anche in queste stanze dov’è depositata la sensibilità del XIX secolo si respira una dimensione intimista al riparo dall’alienazione che ci attanaglia. Nelle quindici sale s’incontrano i resti di un mondo perduto che tuttavia è ancora in grado di entrare in risonanza con l’osservatore più attento, se entra qui col cuore sincero.   

Vesti, stoffe, ornamenti, amuleti, libri tutto diviene “symbolon” (σύμβολον) nel senso letterale greco di “segno di riconoscimento”, qualcosa che una volta accostato alla sua metà consentiva a due persone di ritrovarsi, di sperimentare un mutuo legame di appartenenza attraverso la riunione o ri-costruzione di un oggetto o di un’immagine. E nel presentarsi di queste donne sembra affiorare un codice cromatico o un comune atteggiamento teso a travalicare l’appartenenza sociale, a infrangere schemi, a spiazzare.  

Orecchini e collane di bella foggia accarezzano il candore dei corpi, graziosi corsetti amaranto stringono fianchi e seni ben proporzionati, nastri e trine adornano le capigliature di fiere signore sedute davanti a un cavalletto in belle e luminose stanze, in cui sono sistemati gli strumenti del mestiere, paesaggi e suggestivi scorci fanno da quinte emotive alla vitalità della figura ritratta, spesso coperta di uno scialle contadino, rimando a una pastorale biblica.

Ognuna di queste presenze reca una forma d’immortalità che fu nel suo passaggio terreno, setacciato dal linguaggio dell’arte, per sempre cucito alla vena creativa che l’ha rappresentata ai posteri. 

*In copertina: Domenico Morelli, Cosarella, Museo dell’Ottocento di Pescara

Fotografie di Claudia Ciardi ©

Mosè Bianchi_La lettura in Chiesa_Museo dell’Ottocento di Pescara
Domenico Morelli_Oro di Napoli_Museo dell’Ottocento di Pescara
Domenico Morelli_Donna tra le rocce_Museo dell’Ottocento_Pescara

Dalla mostra di Palazzo Braschi a Roma:

1. Claudia Del Bufalo_Ritratto di Faustina Del Bufalo_dettaglio; 2. Irene Parenti Duclos_Autoritratto_dettaglio

1. Laurent Pécheux_Ritratto della Marchesa Sparapani Gentili; 2. Lavinia Fontana_Ritratto di una giovane aristocratica_olio su lapislazzuli

Una parola che lenisce

Il Gran Sasso a novembre

Le esperienze di queste settimane mi hanno permesso di riflettere su molti aspetti della mia creatività e anche sulla natura di certi incontri. Spesso quando siamo immersi nel fluire degli eventi, concentrati sul nostro agire, diviene difficile avere uno sguardo d’insieme e far caso a quei dettagli che invece sono estremamente significativi e rivelatori del cammino intrapreso. Se considero i più recenti capitoli della mia vita ne traggo una sequenza sbalorditiva di richiami ad elementi nodali, che se anche in talune fasi sono sembrati meno segnanti, pure hanno continuato a riproporsi. Una linfa che va ben oltre la sostanza organica e che si fa nutrimento per l’immaginazione. In ciò si inserisce per l’appunto l’emotività peculiare sprigionata da alcune situazioni, quelle che oggi nelle lezioni sull’intelligenza emotiva si è soliti definire “il picco”, una metafora che mi piace perché mi riconduce alla montagna. Nel mio picco si colloca senz’altro il ritorno in Abruzzo dove ho portato, ma più correttamente dovrei dire riportato, la Profanazione, una scrittura che proprio in questi luoghi era cominciata.  

Nell’incontro abruzzese, come per tutti gli altri che lo hanno preceduto, si è dato un grande rilievo all’idea di cura, al valore terapeutico della creatività, al potere di lenire insito nelle parole. Pronunciare qualcosa corrisponde a un incantesimo, per questo è importante fare attenzione a quel che diciamo, a come lo diciamo. Le parole sono creatrici di realtà, possono ferire ma hanno anche una enorme facoltà di sanare. Una proprietà guaritrice profonda che nei nostri ritrovi abbiamo sempre provato a evocare in un rituale collettivo che è liberatorio e al contempo funzionale a far schiudere i semi dell’autorealizzazione. Come ha ben sottolineato il pittore pescarese Vittorio Di Boscio l’artista è chiamato a occuparsi degli altri, a dare sollievo laddove gli è consentito, non può sottrarsi a questa sua natura. Qualcuno ha anche detto che la scrittura congela l’età, perché chi scrive vive in una dimensione onirica capace di fermare il tempo. Fa bene alla mente, giova al corpo.

Alla luce di tali considerazioni, ancora una volta ho avuto modo di soffermarmi sulla mia storia familiare, dove seppure in assenza di legami diretti ovverosia di parentele ufficiali, i Ciardi risultano prevalentemente o medici o artisti. Il che mi convince sempre di più, per una prova data anche dal cosiddetto legame di sangue, che è innegabile il nesso fra cura dell’organismo umano e propensione creativa. 

Di seguito, il discorso da me tenuto al Teatro Cordova di Pescara con cui ho presentato al pubblico il mio manoscritto inedito, Profanazione, raccolta di prose liriche dipanate fra mitologia e autobiografia:

«Sono molto felice di essere qui e onorata di poter presentare la Profanazione proprio a Pescara, città a cui mi sento molto legata da ricordi che appartengono al mio periodo universitario. Circostanze fortuite e particolari mi hanno portata qui allora e mi emoziona davvero rinnovare oggi, insieme a voi, l’intensità di quei momenti che furono di una me poco più che ventenne in cammino per le strade di questa città. Episodi, emozioni, destini incrociati che hanno disegnato il sentiero delle parole affidate a queste pagine e che offrono adesso uno dei loro frutti. La Profanazione è il risultato di un’elaborazione, una gestazione direi, alquanto lunga. Sono qui condensate almeno un decennio di esperienze autobiografiche fissate in parallelo a un esercizio sulla lingua plasmata secondo le cadenze e le peculiarità espressive della prosa lirica.

In questa galleria talora vorticosa di immagini ed evocazioni ho creato una sorta di purgatorio, un luogo che non si colloca in nessun al di là ma ben saldato alla quotidiana mutevolezza dell’al di qua. Uno spazio penitenziale terreno, fisico, che si fa attraversare e sentire, un viaggio al termine della notte in cui questa mirifica montagna scalata da anime mortali diviene il centro di riflessioni, sogni, utopie raccolte nel bel mezzo delle umane tempeste.

La narrazione incarna anche elementi di teoria e storia della lingua desunti dagli usi dialettali, ricorrendo alla citazione di parole o formule estratte da una confidenzialità familiare e territoriale. Dunque viaggio interiore, epica paesana, Odissea senza eroi apparenti. Scrittura che irrompe nei generi letterari e li mette a soqquadro, corpo traslucido che non vuole nascondere la sua nudità. Materia organica la cui metamorfosi innesca il mutarsi inquieto della parola con il suo carico di incantesimi e disvelamenti. È un’opera che si fa spazio scenico e che rovescia se stessa fino a lambire le rive del metateatro. Un corpo in grado di guardarsi da fuori, di auto narrarsi, che volutamente gioca a coprire e scoprire le sue articolazioni. I cenni alla questione della lingua divengono strutture anatomiche, parti vitali, che si fondono con le immagini, i simboli, le voci che scandiscono il testo. Ne esce una rappresentazione sfuggente eppure allo stesso tempo compiuta in ogni suo gesto, un rito più volte suscitato in un culto profanato, ma proprio per questo sorprendentemente rivelatore».

Teatro Cordova, per il Premio Giacomucci e Santini, Pescara, 16 novembre 2024

*L’Appennino abruzzese in autunno, nei giorni della prima neve, e la notte a Pescara davanti all’Adriatico.
Fotografie di Claudia Ciardi ©