Simboli, sogni e sincronie nell’opera di Marius Pictor

Nel centenario della morte del pittore Mario de Maria, in arte Marius Pictor (1852-1924), Bologna ha voluto rendergli omaggio con una preziosa retrospettiva al Museo dell’Ottocento. Nome fra i più rilevanti del simbolismo italiano, la sua vita si dipana in diversi luoghi chiave della penisola da Roma a Venezia – fu uno dei fondatori della Biennale d’arte – circondato da altrettanti personaggi noti e influenti dell’epoca come Vittore Grubicy de Dragon e Gabriele D’Annunzio. Il titolo della mostra “Ombra cara” è tratto non a caso da un omonimo quadro di Grubicy, che non fu solo un sensibile coltivatore di talenti ma anche valente pittore in proprio. La rassegna fa luce su tali rapporti, nel tentativo di restituire un quadro vivido delle raffinate sensibilità che si sono incontrate alla svolta di due secoli. Un intreccio fiabesco tra poesia e rappresentazione alla ricerca di accordi in cui il paesaggio è specchio dell’anima. Commovente la lettera inviata da de Maria a Vittore in occasione della morte improvvisa della madre come anche l’epistola indirizzata agli Uffizi da Emilia Elena Voigt, coniuge del pittore, per suggellare la donazione dell’autoritratto del marito; l’opera è tra quelle esposte a Bologna. Una storia che dall’Italia si estende alla Germania, per la precisione a Brema e alla cerchia bremese di intellettuali e artisti. Si ipotizza infatti una conoscenza dei Worpswediani da parte di de Maria, se non personale, almeno sicuramente della loro produzione pittorica. Di fatto ha frequentato in diverse occasioni la città anseatica, come attestano i quadri con vedute di campagna realizzati all’inizio del Novecento ed esposti in mostra. Queste opere denotano una lettura non superficiale né affrettata dei luoghi, ben lontana da velleità manieriste, e nella tecnica non mancano i richiami alle avanguardie d’oltralpe, passando per quella variegata e misconosciuta galassia dei trentini che si abbeveravano in misura diversa alle secessioni tedesche.

Architetture soffuse e notturne come riflessi di immagini mentali, vibrazioni fiabesche che stabiliscono connessioni in zone d’ombra dell’umano, trapassi rapidi di sguardi e ammiccamenti mitologici, intuizioni, luminescenze. Da sotto un pergolato può spuntare il volto di un fauno, una vecchia casa-torre immersa nel buio sprigiona un fulgore metafisico, un plenilunio suscita un incantesimo corale. Si sperimenta un continuo oscillare tra reale e irreale, laddove il pittore si adopra a comporre un fraseggio visivo, assolutamente originale e inedito, del travaso fra le due dimensioni. Tutto ciò fa pensare a una narrazione pittorica della sincronicità junghiana, che attribuisce alla mente, al suo potere immaginativo la capacità di dare concretezza a quanto esiste nel pensiero. Il convergere di queste energie nell’esistenza di qualcuno, nel posto giusto al momento giusto, può creare straordinarie risonanze tanto da stabilire connessioni significative fra individuo e mondo. Quello che appare come un processo istantaneo, se non improvvisato, è in realtà il frutto di una continua ricerca e disposizione ricettiva nei confronti di tutto ciò che ruota intorno a noi. Mario de Maria è un artista che raccoglie queste cadenze, che ne elabora le percezioni tattili, trasferendole sulle sue tele, cosicché l’esercizio del guardare sfugge continuamente alla mera dimensione fisica.

Antiche architetture, 1890 circa

* La mostra è visitabile ancora fino al 9 settembre nei locali del Museo dell’Ottocento in Piazza San Michele a Bologna.

* Fotografie di Claudia Ciardi ©

Morituri vos salutant, 1887-1888
Una terrazza a Capri, 1884-1909
Viale alberato a Brema, 1912

L’arte e l’archetipo

Tanagra in Toscana

Archetipo, forma primitiva, radice, matrice, primo volto. Creare è attingere al momento originale, chinarsi alla fonte dell’immaginario collettivo e berne le larve che vi affiorano. Dell’evocazione di questa delicatissima corrente, una sorta di flusso che compenetra chi si appresta all’opera e che si è soliti definire genericamente ispirazione, ho tentato una lettura in alcune mie pagine di recente pubblicazione.

La parola, derivante dal greco ἀρχέτυπον, assume in italiano quattro significati diversi che coprono altrettanti ambiti disciplinari: tecnico-artistico (da notare come la parola greca τέχνη congiunga le due sfere cognitive), filosofico, psicologico, filologico.

Così ci si riferisce al primo esemplare, il modello di un’opera cui altre simili e successive si orienteranno. Quindi nella filosofia, d’indirizzo platonico in particolare, il concetto di idee archetipiche rimanda all’essenza delle cose sensibili. In ambito psicologico, secondo le teorie di C. G. Jung (1875-1961), l’archetipo è l’immagine primordiale contenuta nell’inconscio collettivo, la quale sussume tutte le esperienze dell’umanità e della vita animale che l’ha preceduta, alimentando gli elementi simbolici delle favole, delle leggende e dei sogni. Infine, in filologia, si è soliti definire archetipo il manoscritto non noto ma ricostruibile con maggiore o minor sicurezza attraverso il confronto dei manoscritti pervenuti, da cui questi deriverebbero secondo i rapporti di dipendenza configurati nello stemma codicum, o albero genealogico. Ad esempio, non possediamo l’originale della Divina Commedia di Dante Alighieri – uno dei più clamorosi archetipi mancanti, rovello e passione per molti studiosi – ma talvolta la vicenda familiare dei codici pone in evidenza che l’archetipo stesso sia una chimera. Ossia nella genesi di un testo pare siano entrati in circolazione, fin dall’inizio, esemplari paralleli che rendono vana la ricerca di un solo capostipite.
Tale declinazione filologica è d’uso anche nell’archeologia e nella storia dell’arte: si dirà, statua che riproduce l’archetipo di Lisippo.

Il mio articolo per «Erba d’Arno» (quaderni 171-172), rivista pubblicata con il contributo della CR Firenze, indaga i nessi fra queste discipline, esplorando in che modo le arti e le diverse sfumature linguistiche di archetipo influiscano sia sulle realizzazioni creative sia sui meccanismi di fruizione delle opere stesse.

Accenniamo anche brevemente alla cosiddetta contaminazione fra le arti, come nel caso della poesia, della pittura e scultura. I rapporti e le influenze linguistiche fra Dante e Giotto, quindi i componimenti in versi di Michelangelo Buonarroti che hanno ispirato generazioni di artisti italiani e stranieri, fino all’età moderna, tra cui ad esempio gli espressionisti tedeschi.

«L’entusiasmo che si accompagna a certi ritrovamenti, a scoperte fortuite che all’improvviso ci riconsegnano fra le mani reperti millenari, è innescato da cotali suggestioni. La lontananza che si rifà vicinanza, l’idea di un destino comune che percorre l’umanità, la storia che s’incarna in un segno tangibile spingono l’onda emotiva che abbiamo visto in tante analoghe circostanze. Pensiamo a Tanagra o più recentemente a San Casciano dei Bagni o ancora ai nuovi ritratti del Fayum, affiorati dall’oasi alla fine di quest’anno, trascorso più di un secolo dall’ultima fortunata campagna.  Idoli del sacro e del profano, una quotidianità estatica che sopraggiunge a scrutarci, dee-madri che allattano, giocano coi loro bambini, impugnano il fuso, tessitrici che imitano il gesto delle Parche». (Claudia Ciardi, L’arte e l’archetipo. Specchio di vita immortale, giugno 2023).

https://www.tumblr.com/claudiaciardiautrice

Pistoia, una defilata città – solo in apparenza – ma da sempre spazio in fermento e fucina di molte iniziative. Capoluogo toscano meno frequentato dal turismo, crocevia affascinante di creatività e culture (da «Erba d’Arno» quaderni 171-172, rubrica “Editoria pistoiese”, pp. 132-133).


Calligrammi, una personale esplorazione nella mia scrittura del legame fra linguaggio verbale e figurativo. La riproposta sul mio profilo tumblr della prosa In ogni filo d’erba, omaggio ai borghi liguri, alla mia permanenza sanremese e a Giorgio de Chirico. Grazie a chi continua ad apprezzare questo testo (e a farmelo sapere!).