Incantare. Simboli e figure del magico

Pagina d’illustrazioni tratta da “La magia a Roma”, articolo pubblicato su Storica (National Geographic Italia), luglio 2022

Mentre raccolgo qualche idea sulle tracce della cultura magica nel mondo antico, mi capita di leggere un articolo che mette in guardia da possibili risvolti patologici nel cosiddetto pensiero magico compulsivo. Tutti questi seriosi sostantivi così inanellati mi frastornano; forse l’avvisaglia patologica sta proprio in un lessico così ruvido e respingente. Si dice poi che bisogna fare attenzione a stanare questi sintomi già nei bambini. Un bambino ‘troppo fantasioso’ va monitorato e disinnescato. Che asettica in-civiltà la nostra! Ci sarà anche il rischio di qualche scivolamento psichico, ma c’è pure un pericolo altrettanto grave – se non peggiore – di sterminare degli ingenui moti e bisogni interiori, che sono forse il primo e unico mezzo per un bimbo di comunicare col mondo. Un mondo che può fargli sempre più paura e in cui vorrebbe trovare qualcosa di affascinante (non uso casualmente questa parola, ma la intendo come preciso rimando all’idea del fascino e dell’affatturazione).

Si capisce perché gli studi sull’antichità vivano oggi un momento assai impopolare. Greci, romani, persiani, egiziani erano immersi in simili credenze – certo erano società molto superstiziose, anche – ma avevano di sicuro più rispetto di noi per il dono dell’immaginazione.

Mi ha sempre suscitato preoccupazione chi attacca qualcuno solo perché si diverte a leggere un oroscopo. Che è peraltro un piacevolissimo divertissement, e oltretutto ci sono astrologi che hanno una capacità di scrittura più fine di altri compunti letterati di professione. Insomma, l’intolleranza nei confronti della leggerezza, verso aspetti per così dire non immediatamente utilitaristici del vivere, la ritengo molto pericolosa. Fiutare il morbo dappertutto, perfino in un ingenuo momento di ‘piacere magico’ scaturito dal trafiletto astrale di una rivista, cela un intento persecutorio. Così, mentre diciamo di difendere la razionalità, siamo i più irrazionali e maniacali.

Nel mondo antico divinazione, interpretazione dei sogni, poesia, incantesimi e rituali religiosi, astronomia e astrologia erano aspetti vicini, in armonica fusione e comprovata confusione. Certo, non tutto era lecito. Anzi, le leggi sui sospettati di praticare malefici, di utilizzare le proprie conoscenze mediche e botaniche per fabbricare veleni, di attentare alla vita o ai beni altrui con mezzi occulti, erano severe e le punizioni contemplavano fino alla pena di morte. Emblematico il caso delle XII Tavole, il primo corpus giuridico latino. Secondo le autorità la magia era capace di provocare conseguenze nella vita reale, di qui la codifica di norme a protezione dei cittadini. Il pantheon greco-romano annoverava non a caso alcuni dei associati alla dimensione magica, come Hermes, il messaggero divino, che poteva viaggiare fra terra e aldilà, o Ecate, dea della notte e della stregoneria.

Nel periodo imperiale è noto il caso del romanziere Apuleio che non nascose la sua dedizione per le pratica di magia – probabilmente si interessò ai misteri di Mitra, che dal I secolo a. C., con il ritorno delle legioni da oriente, conobbero a Roma larga diffusione. La stessa religiosità misterica con le sue implicazioni rituali intessute di prove da superare e catarsi finale sono non a caso al centro della sua maggiore opera letteraria Le Metamorfosi (o L’Asino d’oro).

La parola mago viene dal greco magos (μάγος) con cui si indicavano i Magi, sacerdoti persiani esperti in arti magiche, ma allo stesso tempo dotti in matematica e medicina. Quella legata ai culti magici è dunque una storia molto longeva che connette fasi diverse delle civiltà antiche nonché spazi geografici alquanto vasti dalle satrapie orientali all’occidente. I greci ad esempio assimilarono la tradizione egizia di scrivere su piccoli fogli di papiro degli incantesimi, ai quali si accompagnavano ricette o pozioni a base di rare piante esotiche. Celebre l’opera di Fritz Graf, filologo e grande specialista delle religioni antiche, il quale ha raccolto, analizzato, ricostruito moltissimi aspetti della magia nel mondo greco e romano.

Per gli antichi la parola sprigionava un potere straordinario, cosicché era il medium per eccellenza dell’incantesimo. Una parola plasmata in versi, intonata, cantata. Qualcosa che poteva insinuarsi nella volontà, nel più intimo sentire di qualcuno e fin dentro i suoi sogni, intesi come catalizzatori di desideri, fantasie, disvelamenti; non semplici illusioni notturne ma spazi veri e propri in cui abitava l’anima.

In ambito artistico si segnala una produzione variegata e meravigliosa di oggetti magici dei quali gli amuleti sono forse i manufatti più bizzarri. Teste teriomorfe o figure mitologiche (la Medusa è fra quelle più ricorrenti) sono al centro di rinvenimenti diffusi in tutte le aree occupate dalla civiltà ellenica e romana. Simili suggestioni si sono tramandate fino ai giorni nostri. La Medusa in quanto simbolo ipnotizzante e apotropaico – quindi anche intriso di qualità magiche – ha avuto larghissima fortuna, come soggetto indipendente nelle rappresentazioni d’arte e perfino come logo aziendale. Si pensi alla casa di moda Versace che ha unito la Medusa (scelta dal fondatore Gianni) al leone (idea di Donatella) per la proposta commerciale delle sue produzioni. Entrambe queste creature sono infatti associate a vari livelli nella ritualità romana, portatrici di messaggi ctoni e ultraterreni.

Inchiostro Medusa_ditta Gio Diletti di Brisighella // Adoro questa bottiglia vintage

La magia nell’antica Grecia e a Roma – Articolo di Eleonora Fioletti su Frammentirivista

Risolto il mistero della testa di toro nella vasca magica etrusco-romana di San Casciano dei Bagni – Su StileArte

I leoni antichi – simbologia – Museo Monteleonesabino

L’antropologia letteraria di Carlo Levi

Mito e trascendenza in H. Broch

L’epica antica accordata alle cadenze della letteratura tedesca del Novecento, passando a volo radente sui picchi monumentali di James Joyce. Questo è per sommi capi il Virgilio di Hermann Broch, destinato a trasformarsi in uno dei più complessi esperimenti sulla parola. Il commiato di un poeta che quasi indugia in una lunga seduta analitica, che è pure un trattato filosofico sul tempo o una partitura musicale che accoglie in sé ritmi disomogenei eppure contigui; dal debordare del flusso di coscienza alle dissolvenze espirate nell’avvicinarsi della fine. Due sponde – non a caso lo spazio è segnato dal ‘nonluogo’ di una traversata per mare – congiunte in un megalitico eternarsi del tutto.

Né mancano le suggestioni derivate dal mondo dell’arte. Di sicuro Arnold Böcklin – Virgilio si avvia ineluttabilmente verso la sua Isola dei morti – e limitrofe correnti simboliste.

Per uno strano contrappasso Broch fu sorpreso dall’onda nazista proprio ad Altausseee, placida stazione turistica dell’Austria che verrà ricordata per le sue miniere colme di capolavori trafugati da zelanti faccendieri su ordine del Führer. Qui lo scrittore sperimentò l’incubo della reclusione, qui la sorte decise che la sua creatività avrebbe trovato una via di fuga. L’arte prigioniera divenne arte liberata. Così accadde anni dopo anche ai quadri e alle statue lì relegati, per fortuna usciti indenni dall’umana follia.

Questo volume offre al lettore italiano due prose finora inedite in cui affiorano i temi salienti della grande narrativa brochiana.

Arte e letteratura in Via del Vento_Pistoia_
fotografia di Claudia Ciardi ©


* Hermann Broch, Il ritorno di Virgilio, cura e traduzione di Claudia Ciardi, Via del Vento edizioni, novembre 2022

* La pubblicazione è depositata nell’archivio del Teatro Stabile di Torino

Storie editoriali, sogni di persone

Edizioni storiche Sansoni e Vallecchi_foto di Claudia Ciardi ©

Un libro non è solo ciò che racconta. È fatto anche di una storia che lo precede, spesso anzi di molte storie. Nasce dai sogni di chi intende salvare un messaggio, di chi crede per quella via di contribuire alla rappresentazione del mondo. E poi ci sono intenti, affinità elettive, sintonie caratteriali che si scoprono in corso d’opera, destini che si intrecciano. Idee e persone impegnate a difendere legami, memorie, bellezza. Ogni cosa contribuisce all’impresa, in letteratura, come in arte, come nella musica. Il libro è una straordinaria condensazione di tutte queste sintonie.

Lo scorso autunno Laura Vargiu, divulgatrice infaticabile di letture e scritture, poetessa in organico alla giuria di diversi premi letterari, fondatrice del blog «Il ponte delle parole», ha pubblicato un invito alla riscoperta dei “libri antichi”. Ne è scaturita una riflessione che mi ha fatto nuovamente calcare le orme di alcuni progetti editoriali. Storie che ho avuto modo di vagliare durante le mie ricerche, in fase di collazione testuale o nella ricostruzione dei processi di stampa relativi a un titolo. Sono così affiorate tra le mie mani le vicende di giovani studiosi nell’Italia del secondo dopoguerra, fra Milano e Firenze, ma anche di personalità resistenti mentre il conflitto ancora imperversava. Episodi testimoniati da corposi epistolari nei quali è possibile seguire in dettaglio sodalizi e collaborazioni. La vita piena d’impegno di Lavinia Mazzucchetti, gli incroci, anche sentimentali, fra Cristina Campo e Leone Traverso oppure, andando ancora più indietro, la piccata corrispondenza di un D’Annunzio che lamentava con Fischer le imprecisioni nella traduzione tedesca della propria opera. Alle altisonanti rampogne del vate Fischer replicava sempre composto, misurato. Schermaglie fra signori d’altri tempi. In ciò riemergono le avventurose iniziative di Cederna, Lerici Editore, Ricciardi Editore, Vallecchi, Sansoni.

Riscoperte di Laura Vargiu nella storica collana economica di Rizzoli
A commento delle proposte editoriali di Laura Vargiu


Visionando alcuni dei titoli “antichi” che Laura Vargiu aveva nell’occasione riproposto, sono quindi tornata a pensare al libro come oggetto d’arte; non solo nel senso della rarità e del pregio di un’edizione, ma anche e forse più in quanto deposito evocativo di sensibilità. Del resto, la devozione di Laura per mercatini e piccole botteghe di librai indipendenti mette in luce proprio questa prossimità, le relazioni di un microcosmo sentimentale fatto di luoghi un po’ eccentrici e dei loro altrettanto estrosi custodi-cultori. Questi antri votati alla meraviglia sono vere e proprie isole di collezioni diffuse, snodi dove si riscoprono tesori perduti.

Chi non ricorda i vecchi libri Rizzoli, fra i primi tascabili economici, dalle copertine minimaliste: titolo-autore a caratteri neri su bianco (ingiallito) in carta grezza. I nostri genitori hanno adornato gli scaffali delle loro librerie con questa collana o con i primitivi Oscar Mondadori o con la mitica Medusa (sempre Mondadori). Chi non ha avuto in casa tutto il primo Pavese pubblicato da Einaudi?

Uno sguardo alla Medusa_immagine tratta dal blog di Maremagnum

Scelte editoriali non allineate, inattese, visionarie nella prima Piccola Biblioteca Einaudi

Storie, si diceva all’inizio. Di coloro che i libri li hanno pubblicati e del privato di tanti lettori. Nelle mie più recenti ricognizioni mi sono spesso soffermata su questi contatti emotivi, perché prima del conoscere (e del conoscersi) è il sentire, è l’attrazione per qualcosa che percepiamo somigliante a determinare la scelta di un percorso, un avvicinamento, quel travaso necessario a dar forma concreta all’immaginazione. Perché certe cose ci sollecitano, dunque «si fanno sentire prima di farsi conoscere» (per dirla con Yves-Marie André). È peraltro il tema di un bell’articolo sull’esperienza artistica che mi è capitato di leggere proprio in questi giorni. «All’utilità dell’erudizione son sempre più convinto debba precedere, succedere o accompagnarsi “il compiacimento de’ sensi, e il diletto delle passioni”», conclude l’autore. E infatti, ogni opera creativa non può compiersi né veramente diffondersi senza il più sincero e profondo attaccamento al sogno dell’arte.

Altri rimandi:

Non basta l’erudizione, l’arte deve scuotere i sensi (di Maichol Clemente su «Il Giornale dell’Arte», 1 febbraio 2023)

Uno sguardo alla Medusa (sul blog di Maremagnum)

Johann J. Bachofen – Il popolo licio (su un’edizione storica Sansoni)

In questo sito, la pagina dedicata ad alcuni miei percorsi nell’editoria: Mappe editoriali

Tra gli ultimi articoli dedicati da Laura Vargiu alle mie pubblicazioni si segnalano:

Hermann Broch e il suo “Il ritorno di Virgilio”

“Muor giovane colui ch’al cielo è caro”: in ricordo di Georg Heym

In ricordo di Konstantinos Kavafis: l’importanza delle parole

Circumnavigarte

La scelta non poteva cadere su un’immagine più felice. Swanbook e “Il Sirmionelugana” attraverso l’antologia dei poeti vincitori, premiati e menzionati del 2022 rendono omaggio all’idea della navigazione, metafora longeva e potentissima, per una lode alle arti che ha il suo centro nella riviera gardesana.
Un battello che salpa dalle acque del lago per unire idealmente mondi, energie, aspettative, simbolo di pace e di rinnovata (e ritrovata) creatività.
Fra gli autori che la giuria ha ritenuto meritevoli di essere premiati, il libro contiene tre delle mie poesie in concorso.


L’antologia è disponibile in prevendita sul sito della casa editrice e nei principali canali dedicati alla distribuzione editoriale.

* Il Sirmionelugana 2022, AA. VV., antologia del Premio letterario, Swanbook, 2022, ISBN 979-10-80357, € 11,00

Si veda anche: Navigazioni d’arte e poesia

Ut pictura poësis


La parola di un artista non è qualcosa di accessorio alla sua opera. Non è una testimonianza che non possa viaggiare svincolata dalle immagini che ha prodotto.

Nella ricerca sul lascito manoscritto di Paula Modersohn-Becker questo è stato il principio che ha mosso il lavoro fin qui svolto. L’idea che le riflessioni affidate all’epistolario e al diario vivano di vita propria ha avviato uno scavo filologico negli usi lessicali e nelle suggestioni dell’autrice. Si sono pertanto rintracciati sfondi emotivi, echi e inedite corrispondenze.

Il numero 45 della rivista «Incroci» mi ha permesso di presentare i primi risultati di questo studio. Un esercizio di restituzione in lingua italiana della voce di un’artista che si è cercato di far affiorare nella sua spontaneità, senza forzati paragoni con la sua produzione pittorica. Non viene offerto nessun percorso prestabilito.
La coloritura verbale con la sua intrinseca capacità evocativa è un elemento autonomo in grado di orientare la sensibilità del lettore-osservatore. Toccare le parole, esserne toccati, senza preconcetti, senza esiti già definiti.

Un progetto a cura di Eleonora Beltrani e Claudia Ciardi.



Ut pictura poësis. Arte, pittura e metamorfosi di Paula Modersohn-Becker.
Rivista «Incroci», semestrale di letteratura e altre scritture, numero 45, 2022, pagine 118-131
ISSN 2281-1583

Paula Modersohn-Becker – La tecnica ruvida

Chelidonismo

Angelo Morbelli, Alba felice, 1892-1893

Dal greco χελιδονισμός «canto delle rondini», da χελιδών -όνος «rondine», chelidonismo è il sostantivo adattato in italiano che indica un tipo di canzone, conservata dall’erudito greco Ateneo, che i ragazzi di Rodi intonavano in primavera, recandosi di casa in casa ad annunciare il ritorno delle rondini e raccogliendo doni.

Gennaio la luna dei lupi, maggio la luna dei fiori. Le soglie dell’anno, l’inverno in cui tutto riposa, aspettando che il seme si schiuda. In quei primi giorni, se il nostro intento è sufficientemente vicino al nostro centro, affiora talvolta l’immagine di cosa saremo.

Per un periodo della mia vita ho scritto sui miei diari il giorno in cui per la prima volta mi capitava di ascoltare il canto delle instancabili migratrici. Dopo lungo tempo sono tornata a questa abitudine nel 2020. Nei silenzi delle chiusure, nella percezione indistinta ma pure a tratti lucidissima che molte cose non sarebbero più state uguali a prima, il 17 aprile scrivevo: «Oggi sono arrivate le rondini».

Andando a ritroso, studentessa, il 10 aprile del 2006 ritrovo questo appunto: «Mi sorprendono le prime rondini in mezzo a Borgo». In quei diari passati ci sono anche molte altre confessioni, scampoli di poesia, pensieri raccolti alla fine di una giornata, che mi restituiscono un ritratto vivido di me ventenne. Sembra di riascoltare la voce di una figlia che parla da lontano.

A scorrerle di nuovo ora, quelle frasi mi dicono di un infaticabile prodigio che prima non comprendevo, la cui segreta intelligenza, adesso, mi scuote come un’assidua rivelazione che aveva bisogno di tempo, di comprensione e poi ancora tempo, per giungere a compimento.

Ad esempio se rileggo un passo che avevo tratto da Michail Prišvin (avevo per le mani un suo romanzo, Ginseng): «Riesce a ricordarmi che la mia radice di vita è salva, solo per un po’ è rimasta senza crescere». Che stupefacente verità, mi dico! Quanto questa riflessione coglieva e avrebbe colto il mio incedere un po’ stentato di non rari momenti. E poi, l’intensità delle cose greche in cui vivevo ancora completamente immersa: «Porto una bella forma di parole, un canto in luogo di un discorso». Qui è Solone citato da Plutarco.

Infatti, rileggermi è canto. Rivado ai nomi, alle date, ai momenti vissuti; una nevicata in città, un temporale che mi ha colta per strada, i tramonti guardando le cuspidi di San Francesco e i tetti intorno che sembravano toccati dal fuoco.

Lì era già deposta ogni parte del mio essere, chino e intento a raccogliersi. Iside e Osiride erano una sola persona, entrambi unità, entrambi dispersi in frammenti. Né una sola lacerazione si sarebbe consumata ma più volte le tante rotture avrebbero scaturito nuove parti e la necessità di ricominciare daccapo a cercarle. E tutto ha avuto un senso, anche quello che si faticava a comprendere e che ancora sfugge. Poiché tutto è stato per l’attesa, tutto dunque si prepari alla nascita.

Si veda anche:

In ogni filo d’erba

*Dai «Calligrammi»

Η Ελλάδα είναι η ανατολή μου

Arnold Böcklin, Euterpe, 1872
Hessisches Landesmuseum, Darmstadt

La Grecia è il mio oriente. L’oriente come dimensione dell’anima, che è ἄνεμος [ánemos , soffio, vento, passione].. Una patria letteraria, utopica e tuttavia, se si vuole parli davvero a chi la contempla o l’attraversa, proprio nella sua forza immaginativa, è chiamata ancor più a confrontarsi con le sue radici reali.

Mentre la nostra cultura al di qua del mondo spesso tende a guardare l’altra riva sotto l’influsso di luoghi comuni, selezionando aspetti addomesticati e funzionali a confermarne sostanzialmente la propria estraneità. Insomma all’occidente, quindi a una cospicua parte della cosiddetta nostra intellighenzia, piace solo quel che la rassicura e rinsalda nelle sue posizioni.

Che questa lettura delle culture orientali sia parte integrante della storia del nostro pensiero è un fatto. Ed ha pure il suo bello e ha espresso un potere creativo che merita di essere ulteriormente esplorato. Si vedano i tanti volti assunti dall’orientalismo in Germania fra Ottocento e Novecento. E ancora, la questione orientale sempre accesa e fluttuante nella politica dell’impero asburgico, tra assimilazione delle culture est europee e penetrazione balcanica, in una catabasi-anabasi fino alle porte greche e ottomane.

Il rischio è tuttavia scambiare la storia del pensiero con le forme e i contenuti reali, perdendo di vista le vere implicazioni di un incontro basato su aspetti che non si ammantino di abbellimenti strumentali o travisamenti.

La mia traduzione di Konstantinos Kavafis simbolicamente ha inteso ripercorrere queste tracce. Perché la Grecia moderna è reale, col suo portato di cultura e di storia che affonda sì nella classicità ma che trae il proprio respiro anche da molte altre presenze. Aggiungo che la Grecia antica e moderna bisogna farsele spiegare dai Greci.

Nell’occasione del recente anniversario di questo autore, la cui vita incrocia per l’appunto diverse patrie orientali, ricordo alcuni degli ultimi contributi dedicati al mio studio. Sofia Cacchi («Pangea. Rivista avventuriera di cultura & idee»), Annarita Celentano («Mangialibri»), Laura Vargiu («Zona di disagio» e «Il ponte delle parole»).

Altro qui:

Konstantinos Kavafis (rassegna stampa)

Germania e orientalismo

Avanguardia russa – La prima volta della collezione Costakis in Italia (Torino)

Navigazioni d’arte e poesia

Agnolo Bronzino, Allegoria dell’Amore e del Tempo, 1546

Il rapporto culturale che ho sviluppato con la Lombardia da quando mi sono avvicinata alla Fondazione Testori nel 2013 è stato per me di grande stimolo.

Amore a prima vista, scambio continuo, intesa totale.

Grazie Lombardia! In particolare, grazie Brescia, Mantova, Milano.
E grazie Alessia Rovina – lo so che mi leggi anche qui! – per aver avuto l’intuizione dell’«Argonauta». La tua vivacità e passione per l’antico mi sono venute incontro in piena pandemia con inaspettata delicatezza e non casualmente, nanu mia, bambina mia, ti sei materializzata da un luogo a me così caro.

Capacità imprenditoriale, lungimiranza e passione per i bei progetti culturali nel segno del tipico pragmatismo lombardo mi hanno formata, arricchita, offrendo spunti sempre rinnovati alla mia scrittura.

Tutto, tutto ma proprio tutto è stato incredibile. Dai primi cammini mossi in autonomia tra mostre e centri culturali, dalle aperture manifestate alla mia creatività per poi approdare alle coinvolgenti campagne fotografiche sul gotico.

La cesura imposta dal covid, con quello che purtroppo ne è conseguito per ognuno di noi, non scalfisce la straordinarietà di questi anni. Direi anzi che ancor più la incide come esperienza unica di un decennio per me assai importante.

E grazie anche per questo recente riconoscimento
Circumnavigarte 2022 / Sirmionelugana XI

Storia naturale della distruzione – Sebald, Benjamin, Carifi


L’ “epoca delle rovine”, così la chiama Roberto Carifi mentre ripensa ai giochi della propria infanzia «in uno spiazzo sterrato e desolato, circondato da edifici sventrati e cadenti», orla e scandisce l’infinito istante che ha lacerato la vita e la parola, e aggirandosi sulle loro membra disperse continua a farvi risuonare la sua eco. Epifania di un senso interrotto che, al deflagrare di ogni cosa, rivendica per sé un nuovo spazio nel mondo.

C’è una consonanza, un accordo sonoro e sensibile, tra ciò che abita l’infanzia di Carifi, non a caso studioso e traduttore di una parte cospicua della produzione poetica tedesca, e l’impressione che Sebald riserva a se stesso da bambino:

«Ho trascorso l’infanzia e la giovinezza in una zona che si estende lungo il margine settentrionale delle Alpi, zona largamente risparmiata dalle immediate conseguenze delle cosiddette operazioni militari. Alla fine della guerra avevo appena un anno ed è quindi difficile che, di quell’epoca segnata dalla distruzione, io possa aver serbato impressioni fondate su eventi reali. Eppure ancor oggi, quando guardo fotografie o documentari del periodo bellico, ho come la sensazione di esserne il figlio, come se di là, da quegli orrori che non ho vissuto, cadesse su di me un’ombra alla quale non potrò mai sfuggire del tutto. […] Le immagini dei sentieri di campagna, dei prati rivieraschi e dei pascoli montani vengono a confondersi davanti ai miei occhi con quelle della distruzione, e – in maniera perversa – sono proprio queste ultime, non gli idilli infantili divenuti ormai assolutamente irreali, a darmi un senso di casa, forse perché rappresentano la realtà più potente, la realtà dominante dei miei primi anni di vita. Oggi so che allora, mentre ero disteso nella culla sull’altana della nostra casa di Seefeld e, socchiudendo gli occhi, guardavo in su verso il cielo bianco-azzurro, dappertutto in Europa erano sospese nuvole di fumo». (Sebald, o. c., pp. 74-76)

(Claudia Ciardi)

Dal mio articolo “Appunti sulla teoria della distruzione di Winfried Sebald” (dicembre 2010).

Pubblicato inizialmente sulla versione online di «Helios Mag» (archivio non più presente in rete).
Qui la versione integrale del mio contributo

Altro qui >>>>>> Robert Walser e Winfried Georg Sebald

Esuli di ieri e di oggi. Memorie istriane

Barcola prima del temporale

Ricordo un cambio repentino di luce, come un’anima che entri in un’altra. La città mi salutò così. È così che ho attraversato il golfo di Trieste. E la sera bevevo un caffè in Viale XX Settembre sotto un cielo lampeggiante. Per ore la tempesta ha continuato a indugiare e sembrava che tutto il golfo danzasse uno strano rituale che non si decideva al compimento.

Nei giorni successivi ho incontrato un istriano, fulvo di capelli, che mi ha costretta a seguirlo e che in tutti i modi voleva farmi una cabala. Diceva di esser stato un esule, di venire da Pirano, additandomela sull’orizzonte. In quel momento la luce che la illuminava era di nuovo così enigmatica da dipingermela come una scheggia di un altro mondo. Aggiunse poi che si sarebbe espresso sul mio destino non prima di aver giocato una dozzina di mani con le carte triestine, con le quali mi imbrogliò bellamente, perché faticavo a ricordarle. Né da parte mia ebbi voglia di applicarmi.

Quindi compitò su un foglietto numeri e date. Alle spalle avevo Miramare, la cui fatale presenza avvertivo sopra di me, intanto che seguivo la mano scarna del mio indovino. Pensai che il cabalista mi stesse prendendo in giro una seconda volta, ma il modo in cui mi affidò il biglietto dissipò in me ogni dubbio. In quel momento ebbi la certezza che l’adorabile ciarlatano sapeva il fatto suo.

Più tardi, una sera di fine settembre, un sentiero che porta sulle mura di Lucca, direttamente in uno degli affacci più belli della città, dietro il campanile di S. Frediano. Anche l’ora poteva dirsi la più propizia per girare in quel luogo. Sul tardi, quando il sole si posa obliquamente sopra le architetture e i monti e tutto il resto sembrano sciogliersi in un irrefrenabile trapasso. Ero tornata a camminare lì dopo il mio passaggio a Trieste, giorni intensi segnati da narratori d’eccezione, gente che con spontaneità, signorilità d’altri tempi, e perfino una sana follia, mi aveva donato un pezzo di sé: che Trieste sia una finestra sul mondo è vero non solo per l’intreccio di cultura ed eventi che vivono nei libri e continuano a scaldare il cuore della città, ma più ancora per la miniera di tipi umani in cui ci si imbatte. Mi ero lasciata indietro Miramare, il mansueto guardiano del golfo, il bambino bianco che si fa beffe del tempo, e mi ritrovavo a passeggio su questo scorcio di mura antiche, in una luce calda che ne alleggeriva i contorni. Dentro di me si fece avanti una presenza, quasi una vicinanza che rivendicava attenzione. Forse perché avevo ancora nelle orecchie le voci di chi nel mio viaggio mi era venuto incontro. Ma no, sentivo che era qualcosa di più forte. Non sono affatto metodica e raramente mi soffermo su targhe e iscrizioni. Eppure avvertii il preciso bisogno di voltarmi. Ridiscesi il sentiero e mi avvicinai al grande edificio bianco sulla destra, che sorgeva come un panno steso dietro S. Frediano. Possibile che sia una scuola? No, il liceo classico è in una strada vicina, non mi sbaglio. Provai una strana sollecitudine che mi provocò a leggere la targa commemorativa. Nella grande casa bianca, che per certi versi al tramonto ricorda il candore di Miramare e che guarda le alture al di là delle mura, azzurre come onde portate lì da un’insolita corrente, trovarono ricovero molti esuli dell’Istria. All’improvviso tutto mi divenne chiaro. Guardando là oltre, in quei momenti di strazio e sradicamento, magari più d’uno si sarà sentito confortato qualche attimo dal sole che veglia i bastioni, dove il verde cupo dei monti, che a tratti vira in blu, ricorda i dolci profili istriani. Sono rimasta senza parole. Mi sono venuti i brividi.

Anni dopo, una notte tra i carruggi di Genova, avrei avuto precisa conferma dei miei numeri, dei destini che vi si agitavano. Ad ascoltare di nuovo le cifre sillabate nel caldo soffocante di un’altra città, in ore incomprensibili e certamente non di questa terra, mi sono sentita quasi divelta.

(Claudia Ciardi)

Barcola

* fotografie di Claudia Ciardi

È  raro che in poche battute le persone si rendano disponibili a rivelare qualcosa di sé. Questo grado di profondità, raggiunto con inspiegabile spontaneità e immediatezza, l’ho sperimentato finora solo a Trieste.

Stralcio di corrispondenza con uno degli artisti triestini (ottobre 2014)

La follia abbatte il personaggio perché si impadronisce dell’anima, voglio difendere la mia anima e la mia persona perché nessuno lo farà mai.

Attualmente ho una mostra delle mie opere dove rappresento l’interno della grotta di mare a miramar, nel parco dove due amanti si incontrano come in sogno, sono stati Massimiliano e Carlotta sicuramente due spiriti, a suo tempo, che aleggiano, e forse due amanti che sognano di esserci. Folli son quelli che si lasciano travolgere dalle furie, io non voglio e se è successo nella mia vita non ero cosciente, pensa forse capirai.

Me – ottobre 2014

Quello che fai è molto bello. La tua grotta è un mondo incantato in cui i sogni di tanti vengono a darsi appuntamento.

È strano come la tua sfrontata esuberanza si richiuda all’improvviso. Ne resto quasi sconvolta.  

Purtroppo la realtà è cosa assai ruvida e spesso distaccata da una più autentica comprensione. Però, finché siamo qui, è inevitabile viverla. Ma può anche essere bello abbandonarsi, se bello è ciò che ci afferra. A dircelo è qualcosa che ha a che fare con l’istinto, credo. Le sensazioni sono continuamente esiliate nell’epoca in cui viviamo, e questo è un male, male per la creatività, male per l’arte, male per la spontaneità dei rapporti tra esseri umani. L’aridità è la cosa da cui non vorrei mai essere dominata. E un artista, per sua stessa inclinazione, non può essere avaro di sé.

La tua anima la culla Trieste, lo ha già fatto per tanti. È generosa e calda come una madre, e ti sorregge. Non dimenticarlo. Te lo dice una forestiera, che ama guardare lontano.

13 ottobre 2014

Per fortuna la grotta sul mare esiste è reale non è un sogno quindi sono al sicuro dalla follia lontano lontanissimo tocco la realtà con mano ….. finché vivrò.