Leggere l’arte

Il libro in qualità di oggetto d’uso o riprodotto in rappresentazioni di pittura e scultura si candida a incarnare nel corso della storia una doppia valenza come strumento sapienziale e simbolo di questa caratteristica speculativa. La sua comparsa sulla scena dell’arte, spesso affiancato al ritratto di un lettore più o meno illustre, celebra l’emancipazione culturale e sociale, avvenuta nel tempo, di un numero sempre più vasto di categorie umane alla ricerca della propria identità pubblica e privata. Una conquista lenta e inesorabile che si accompagna all’invenzione della stampa e, dunque, alla graduale consapevolezza dei cambiamenti prodotti da una circolazione più veloce e ampia della cultura.

Espressione verbale, segno grafico, creazione pittorica vengono così a stipulare una longeva alleanza che si nutre della medesima facoltà immaginativa. Parola e disegno sono infatti due costellazioni complementari, che si possono pensare nello stesso cielo, che servono volentieri un comune intento divinante e, dunque, una natura similmente ispirata.

A dispetto di cori lamentosi annunciati da vessilli di resa – voci di un passato recente e già oltremodo vetusto – noi guardiamo alla vera antichità, autentica fonte di cultura. Diverse concomitanze ci stanno riconsegnando le tracce di una storia potente. I Fori imperiali rinnovano il loro splendore, anche attraverso il riposizionamento di trecentomila sanpietrini – pietra su pietra, passo su passo. Dopo mille e cinquecento anni si è riportata l’acqua alle Terme di Caracalla, elemento costitutivo e fondante di quelle architetture. A Piazza Pia riaffiorano il Portico e i giardini di Caligola.

Un’urbanità sepolta si scuote dal torpore e bussa alle soglie del nostro tempo, densa di messaggi, carica di attese. Ancor più sentiamo il bisogno di esserne custodi e interpreti. Raccogliere questi indizi trasmette forza alla nostra stessa idea di arte, di disegnatori e costruttori del contemporaneo. In ciò riprende vigore anche il convincimento che le idee non siano negoziabili. E quando sono veramente ispirate e sostenute dalla genuinità dei sentimenti diventano incontenibili.

Per questo rito di unione fra arte e scrittura il SetArt 2024 non poteva che tenersi a Roma.

Rosa Rosae

Giardino e roseto dell’Esquilino – Roma

Fiore fra le simbologie più complesse e stratificate nel tempo, mitico e storico, incarnazione di contrasti e ambivalenze, al centro di riti, oggetto di credenze e incantesimi, amato da fate e streghe. La presenza della rosa nelle fiabe risale all’epoca medievale, e le qualità magiche che le sono attribuite derivano senz’altro dall’antica associazione alle divinità. Ad esempio nella storia che lega Adone e Afrodite. La dea della bellezza, depositaria di aspetti che la uniscono alla grande Madre, deterge un olio profumato di rose sul corpo di Ettore morto. Gli aspetti ancestrali del femminino, della maternità cosmica, della vita e della sua cura, anche nella morte, si intrecciano alla rosa, alla sua essenza, al suo linguaggio. A tale proposito, nel dualismo di vita e morte, affiorano pure analogie con Ecate, dea infera, conduttrice di anime (psicopompa), e con Iside; nella ventata delle mode orientali della tarda latinità, la devozione isiaca, frutto di sincretismi religiosi, acquista seguaci anche nelle classi agiate. Ne è oggetto il famoso capolavoro di Apuleio, Le metamorfosi note anche come L’asino d’oro. Gli antichi riti funebri in memoria dei morti si chiamavano Rosalia, da cui si sarebbe ereditato l’uso di deporre rose sulle sepolture. Trattandosi di un rituale con ascendenze asiatiche, si ipotizza che a introdurlo a Roma siano stati i commercianti di lungo corso attivi nelle province orientali. Secondo altre ipotesi, invece, le Rosalia nacquero sotto l’impero di Augusto, importate dalla Gallia Cisalpina. C’è chi sostiene che era una pratica diffusa soprattutto tra i militari, che utilizzavano le rose per onorare, in mancanza dei familiari, i loro compagni caduti.

Comunque stiano le cose, un fatto è certo: i romani ogni anno tra il 10 e il 31 maggio si facevano carico di queste festività per onorare chi non c’era più.

A conclusione di quanto detto sin qui, il legame preferenziale con le dee, la sfera sentimentale e sacra, ne ha fatto per antonomasia il fiore del femminile e della femminilità, fisica e spirituale, di cui accoglie e riflette il segreto e il mistero.
I ragazzi iniziano a declinare il latino sillabando il nome della rosa, che è canto già nel susseguirsi di quelle desinenze. Dalla Grecia omerica e arcaica, dove l’aurora ha dita di rosa, a Cielo d’Alcamo e poi ancora nella poesia rinascimentale e barocca, la sua celebrazione in versi non conosce inaridimenti. Fragile quanto longeva e salda, la troviamo disseminata nelle opere letterarie e in quelle d’arte, ritratto di un inscindibile connubio fra sensibilità poetica e figurativa.

Il moto concentrico dei suoi petali rappresenta la ruota del ciclo vita-morte-vita. La rosa è coppa e femmina che conserva e presiede l’eterno ritorno. Attraverso un percorso culturale molto lungo e sfaccettato, dai Pitagorici al romanzo ellenistico – vi si è accennato con Apuleio che a quelle fonti attinge – la rosa diventa l’emblema del segreto (sub rosa) nell’immaginario alchemico ed ermetico.

Link:

La compagnia delle rose

Natura sensitiva – Il fiore e il segreto

Le Rosalia. Feste delle rose

Roseto all’Esquilino
Giardino del Quirinale
Roseto comunale di Roma
Roseto comunale di Roma – Visitabile liberamente fino al 16 giugno

Fotografie di Claudia Ciardi ©

Spiritismi, teorie e corollari

Maghi, spiritisti, illusionisti, mesmeristi, ipnotizzatori, sensitivi. Professionisti dell’occulto a vario titolo e grado aleggiano fra bizzarri, per non dire improbabili, dagherrotipi, prodotti fin dagli anni Quaranta del XIX secolo. Locandine di eventi incentrati su numeri di prestigio, inviti a visitare misteriose sale dove si praticavano le sedute spiritiche o altri esperimenti di comunicazione coi morti. Fra i luoghi di maggior richiamo le cosiddette “stanze egizie” sull’onda di un ambiguo e fascinoso rapporto che da sempre lega l’egittologia all’esoterismo. In simili gabinetti orchestrati da sedicenti professionisti prendevano forma numeri ed esperienze che facevano leva su presenze e testimonianze di antiche civiltà, ritenute depositarie di poteri sovrannaturali. E ancora, al di là di manifestazioni più o meno credibili, divi assoluti, osannati da folle eterogenee ed incuriosite, come Harry Houdini, in aperto dissidio con l’attività di presunti medium e parapsicologi. Strumenti e materiali con cui approntare vere e proprie scene a tema, maschere, burattini, parrucche, stoffe (di solito i bendaggi venivano utilizzati per simulare il cosiddetto ectoplasma). E ancora, manuali, appunti, disegni autografi. È questo il vastissimo e in larga parte inedito apparato iconografico che accompagna il libro Die Kunst der Illusion. Magier, Spiritisten und wie wir uns täuschen lassen, pubblicato da Dumont nel 2019.

Il mago William S. Marriott presiede all’apparizione dello spirito di un “Geistervogel”, un uccello fantasma. L’animale dal bianco piumaggio si scorge appena sopra il mazzo di fiori tenuto in mano dalla donna che all’aspetto evoca una vestale o qualcosa di simile. Una fotografia davvero scenografica tratta dal citato volume Dumont (2019)

Testimonianze della mentalità e di una moda che attraversò buona parte dell’Ottocento, trovando una sponda assai stimolante nell’invenzione della fotografia, mezzo che si prestava a sperimentare e suggestionare come pochi altri fino a quel momento. Un fenomeno esteso che interessò trasversalmente i paesi occidentali di cosiddetta cultura sassone come anche quelli mediterranei. Alle latitudini italiane è risaputo che non ne fossero esenti letterati e uomini di cultura di differente formazione, anche in ruoli di spicco per quanto concerne la loro professionalità e in conseguenza la presenza pubblica. Lo spiritismo era in grande spolvero nei salotti borghesi di allora. Citiamo a titolo d’esempio la cerchia in cui si aggiravano Luigi Pirandello, Luigi Capuana e Gabriele D’Annunzio. Nel caso dannunziano non è trascurabile per il contesto il rapporto con l’architetto del Vittoriale, l’amico Gian Carlo Maroni, che si definiva occultista e sosteneva di esercitare la telepatia. A Napoli nel 1886, il poeta pescarese incontrò l’arcinota medium Eusapia Paladino, personaggio quasi leggendario. L’episodio fu poi oggetto di narrazioni parodistiche come quella che ne fece molto tempo dopo la rivista «Varietas» sul numero di maggio del 1919. Mentre durante la reggenza del Carnaro ebbe contatti con la poetessa e occultista triestina Nella Doria Cambon, nel cui casa si tenevano riunioni di natura spiritista frequentate dalla marchesa Casati, da Tommaso Marinetti, Ada Negri e Italo Svevo.

John Singer Sargent, Fate, 1879 circa

Non è infine trascurabile il ricchissimo, multiforme e screziato patrimonio libresco sulle arti magiche. Tali edizioni in non rari casi hanno alimentato biblioteche sorprendenti, “compendiato” luoghi di singolare natura ed eclettica fisionomia come le Kunst und Wunderkammern, alla stregua di talismani e altri oggetti rituali, offerto un banco di prova all’estro di stampatori che hanno fatto di queste opere dei veri e propri pezzi d’arte. Si rimanda, sempre nel panorama italiano, alla Bibliotheca Hermetica Verginelli-Rota, ricordando che Nino Rota è stato l’autore delle più celebri colonne sonore felliniane. Quanto a Vincenzo Verginelli, classicista, amico fraterno di Rota che aveva conosciuto a Bari nel 1939, dove quest’ultimo insegnava al conservatorio, è l’autore del catalogo di questa loro pregevolissima e rara creatura, alimentata dalla comune passione per la filosofia ermetica, soprattutto di matrice antica, e da un’inesauribile passione bibliofila. Aggiungo per chiosare che lo stesso Federico Fellini subiva volentieri il fascino di simili argomenti tanto che fu pure in contatto con Gustavo Rol.

Le collezioni librarie stimolate da curiosità di questo tipo attraversano a quel che pare le epoche umane e intersecano interessi eruditi, con radici ben piantate nel mondo greco, soprattutto del periodo ellenistico, e latino – si pensi ai papiri magici, raccolte di incantesimi, esorcismi, malefici, e sul fronte opposto del pensiero razionalista al De divinatione ciceroniano, agguerrita trattazione contro le pratiche degli indovini. Il citato volume tedesco, si pone come un dettagliatissimo catalogo d’arte sul “ritorno” moderno dell’animo magico restituito nei suoi diversi risvolti e per mano di sbalorditivi documenti visivi.   

Antonio Donghi, La fontana dei cavalli marini, dalla mostra di Palazzo Merulana (Roma) Antonio Donghi. La magia del silenzio
fino al 26 maggio 2024.
Fotografia di Claudia Ciardi ©

Di seguito altre immagini tratte dal volume oggetto di questa breve dissertazione

Le stanze egizie
Copertina del libro

Altri collegamenti sull’argomento trattato:

Enigma Rol – Il docufilm (uscito nell’ottobre 2023, per chi non ha potuto vederlo in sala, ci si augura che prima o poi venga diffusa una versione streaming).
Qui il trailer ufficiale.

Per una lettura in chiave comica di alcuni luoghi comuni della magia e del macabro si consiglia la spassosa commedia all’italiana, Io zombo, tu zombi, lei zomba (disponibile su Raiplay). Un’improbabile combriccola di zombie, un ridicolo manuale di magia che custodisce una formula scandita a suon di “paraponziponzipo”, una parodia di categorie sociali e tipi umani degni di un’armata Brancaleone per spiritisti.

Neogotico e Wunderkammern (dal 2 al 12 maggio 2024 a Roma).

«Sposterò ogni pietra», frammento 4.22 Adler

«Sposterò ogni pietra», frammento 4.22 Adler [numero 109 nella raccolta
di Parke e Wormell]

L’oracolo è voce e sentiero. Il verbo è il medesimo utilizzato da Archimede: anche lui desiderava scuotere il mondo attraverso l’immaginazione, affidandosi al potere del calcolo e della mente. Il XIV libro dell’Antologia Palatina raccoglie gli oracoli delfici accanto a enigmi, indovinelli, proverbi. Espressioni contigue e tenaci scaturite dalle millenarie fonti della cultura orale, e perciò degne d’ascolto.

Mentre assistiamo alle improbabili acrobazie dei nuovi dei, mentre qualcuno vorrebbe farci adoratori dei nuovi culti, la parola antica ci insegna a prendere le distanze, indica un approdo sicuro, risveglia la sensibilità calpestata. È la sostanza che non vacilla, il basolato che gli antenati scelsero per lastricare le loro strade, è il sasso levigato dal torrente nel respiro della montagna, la pietra che mani sapienti incastrano con l’altra pietra per tirare su i muri a secco a protezione dei campi. 

Nelle fiabe degli antichi l’oracolo è l’inflessione divinante, la cadenza, la pura risonanza. Muti gli interpreti, sigillati i templi, su troppi luoghi il silenzio è sceso per far posto a idoli falsi e ignoranti. Anche sulle nostre stesse pagine, che per noi si legavano nel più sacro dei libri. Così i cattivi consiglieri hanno tentato il loro assalto. Ma la parola tace solo in apparenza. S’interra la parola, come seme, come sguardo che riposa. E in quel riposo vive, sensibilmente giace prendendo coscienza. Corpo in attesa della guarigione. Dicono il tesoro sia sepolto nel recinto della tenda: sposta ogni pietra! Metti in opera ogni arte, assimila ogni intento, sii forte, l’autentico non tarderà a mostrarsi.

Nicholas Roerich

Tra Larthi e le colline romane

La zona delle colline e dei castelli romani offre paesaggi suggestivi che attorniano complessi monumentali e archeologici di grande prestigio, la cui conoscenza passa anche e soprattutto da strategie mirate di valorizzazione e dalla nostra capacità comunicativa. La cultura, intesa come attenzione per il territorio, la sua storia passata e presente, e per tutte quelle testimonianze che contribuiscono all’identità dei luoghi, può fare molto. Può anzi giocare un ruolo decisivo per il rilancio e la costruzione di reti estese alla base dello scambio di esperienze individuali e comunitarie.

Il premio Massenzio, organizzato dal comune di San Cesareo, che fra le sue attrattive vanta un’area archeologica fra le più rilevanti della nostra penisola, la “Villa di Cesare e Massenzio”, è improntato a questo spirito di memoria, conservazione e desiderio di traghettare i nostri valori, le tracce delle origini alle generazioni future. 

Del resto, l’Italia è un paese di molteplici e sorprendenti stratificazioni, naturali, popolari, artistiche. Saperle interpretare, connettere e travasare in contesti fra loro contigui o meno, è alla base di ciò che riesce ad attrarre presenze, incentivare interessi e generare investimenti, intesi a livello di capitale materiale e umano. Viene da chiedersi se la scrittura possa dare un contributo in tal senso. Certamente sì. L’esercizio della parola condiviso fra persone sinceramente e semplicemente ispirate dalle loro rispettive appartenenze ed esperienze territoriali è capace di scendere in profondità, sa motivare ed essere guida.

Campagna laziale fra San Cesareo e Colonna

Ogni discorso sull’identità viene fin troppo spesso ridotto al nazionalismo. Tuttavia, l’idea di popolo e di nazione, proprio a causa di pregiudiziali ideologiche, sono incappate negli ultimi anni in un colossale fraintendimento, volto fino all’autocensura. La nostra storia più recente, risorgimentale, nasce da una precisa e sentita volontà di unire, di identificarci per l’appunto. Un processo che per certi versi non si è ancora concluso, dove il contributo territoriale, civile e narrante di ognuno, perché molte, troppe sono ancora le voci che non hanno voce, attende di avere piena rappresentanza, di trasformarsi nelle ulteriori sfide che scuotono l’attualità, per non dire della tuttora irrisolta questione meridionale. Chiudere gli occhi e spazzare via tutto in nome dell’anonimo salto globalista è, specialmente per un paese come il nostro, qualcosa di innaturale. Una pericolosa stortura.

L’itinerario della Via Francigena nel Sud

La poesia in particolare ci ricorda i sacri legami col nostro passato, i nostri antenati, la nostra terra. E come dice la mia cara amica poetessa di origini russe Natalia Stepanova «la poesia mai sarà morta. È una divinità». L’evento celebrato lo scorso 6 aprile nella biblioteca comunale di San Cesareo, i cui esiti sono stata raccolti nell’antologia del premio dove potete trovare anche la mia poesia intitolata a “Larthi”, la principessa etrusca della necropoli di Cerveteri, s’inserisce nell’ambito delle iniziative dell’area dei Castelli romani e, promuovendo il dialogo fra arte e scrittura, nel concorso di tante energie creative dalle diverse aree geografiche della penisola, intende valorizzare il nostro patrimonio culturale.

Il tramonto dalla “Casa di Grazia”, b&b e ristorante, edificio storico di San Cesareo in Via del Carzolese, abitato da tre generazioni, costruito pietra su pietra nel 1910 (l’anno della cometa di Halley)
Le montagne in una tela a casa di Grazia, dove la passione per l’arte e
la gentilezza sono palpabili
Antologia del Premio letterario Massenzio_
II edizione
Presidente del Premio: Antonella Gentili
In copertina: Tratto del basolato dell’antica Via Labicana

*In questo articolo sono riportati stralci del mio discorso pubblico tenuto durante la premiazione.

*Fotografie di Claudia Ciardi ©

Libri e divinazioni da Finale Ligure a Vienna

Il fatto che molti luoghi nel ponente ligure trasmettano piuttosto intensamente la sensazione di una longeva e stratificata storia culturale, è qualcosa che posso testimoniare di persona e che segna in modo significativo l’incontro con queste realtà. Aggiungerei che l’idea di una simile densità emotiva lambisce il visitatore con sorprendente immediatezza e deriva a mio avviso da una singolare alleanza che qui si sperimenta fra realtà e surrealtà; si ha come l’impressione di toccare con mano qualche eco risalente da chissà quale lontananza. Mi spingo anche ad affermare che pagine luminose e fondamentali di molta poesia novecentesca non possono essere comprese se non si è trascorso del tempo proprio in simili località. È un tema a me caro e che ho portato all’attenzione in alcuni miei scritti. Non solo il più spesso citato Eugenio Montale, ma penso anche alla cosiddetta scuola di cantautori genovesi (la poesia-canzone), o a Paul Valéry. Sarà che sua madre Fanny Grassi era italiana, figlia del console italiano Giulio Grassi, originario di Genova, sarà l’influsso biologico e il legame affettivo ad aver contribuito alla sensibilità del poeta francese: è innegabile che certe sue immagini siano semplicemente e maestosamente liguri. I versi del Cimitero marino non si sarebbero depositati in me con altrettanta limpidezza, se non mi fossi fermata a Sanremo e non ne avessi visitato le intime e antiche sepolture a due passi dal litorale. E penso pure alla luce di Bordighera e ai suoi stessi sepolcri, quasi un monumentale giardino pensile ancora italiano ma per certi versi anche già francese.

Sezione dei tarocchi alla mostra
Calvino cantafavole, Genova, Palazzo Ducale
15 ottobre 2023 – 7 aprile 2024

Dunque, si va per immergersi nelle bellezze paesaggistiche e si scoprono personalità ingegnose che hanno animato e fatto la fortuna di molti abitati. Tornando a certi percorsi finalesi, occasione che di recente mi è stata offerta durante un mio passaggio alla mostra di Genova, Calvino cantafavole, ho avuto modo di recuperare la poesia di un cosmo sfaccettato e affascinante, venendo a conoscenza di aspetti di cui poco o nulla sapevo. Leggere infatti che proprio a Finale Ligure è nata la prima versione a stampa dei tarocchi, le carte del “gioco della vita” che tanta parte degli immaginari letterari hanno influenzato compreso quello calviniano, mi ha stimolata ad approfondire ulteriormente glorie e splendori del borgo. Del resto, la notizia del primato editoriale in una simile impresa non può lasciare indifferenti. Tanto da apparirmi come una sorta di crocevia universale, quasi che il gioco e la divinazione legati all’uso di queste singolarissime carte dipinte, fossero una metafora di tutte le arti e, in conseguenza, di tutte le possibili eccentricità riunite a tali latitudini. Ciò che ho scoperto non ha smentito la mia prima impressione.

Pannello esplicativo affisso nella sala dei tarocchi alla mostra Calvino cantafavole, Genova, Palazzo Ducale
15 ottobre 2023 – 7 aprile 2024.
Nell’ambito delle celebrazioni del centenario dello scrittore sanremese

Si è svelato un ritratto di cosmopoliti, bibliofili, esoteristi e astronomi che in una non ben precisata epoca installarono un primo rudimentale osservatorio sulle alture dell’entroterra. Un sito che dall’altopiano delle Manie al mare offre vedute spettacolari affiancate a un patrimonio artistico dal quale si evince una continuità territoriale rilevante in termini di presenze e memorabilia. Basti pensare che alcune grotte sovrastanti l’insediamento pare fossero occupate fin dal paleolitico.
In età moderna, fra i notabili e possidenti locali, salta agli occhi la vicenda di Alfonso II Del Carretto, marchese di Finale, dove nacque nel 1525 per poi morire a Vienna nel 1583. La singolarità dell’uomo non sta solo nell’aver saldato un pezzo di storia ligure su quella mitteleuropea, legandosi in particolare alla capitale asburgica cui riservò trasferte sempre più frequenti fino all’espatrio e alla richiesta d’aiuto presso l’imperatore a causa delle minacce subite dal suo potentato. Ma il personaggio è ancor più degno di nota per essere stato l’artefice di un’avventura sapienziale di grande rilievo, ossia la raccolta di un cospicuo fondo manoscritto che servì ad istituire una ricca e sorprendente biblioteca. Il progetto infatti è il riflesso degli orientamenti, dei gusti e delle intenzioni di un uomo consapevole dell’incertezza della propria condizione di semi-esule e quindi esule, che credeva di rimpatriare ma senza esserne sicuro. Ciò che comunque lo ha ispirato in tutte le sue acquisizioni è stata l’idea di raccogliere una documentazione d’uso per la famiglia e ancor più per il marchesato. In sostanza, un disegno lungimirante che aspirava a caratterizzarsi come opera pubblica. Lo studio filologico della nota che raccoglie gli acquisti librari del marchese, fonte preziosa del dipanarsi della sua attività, si deve ad Anna Giulia Cavagna; una recensione molto dettagliata di questa ricerca, che aiuta a comprenderne metodi e contenuti, è liberamente consultabile in rete.

Antiquariato a Finalborgo

Vengo infine all’osservatorio astronomico finalese. Fra le alture montagnose dell’immediato intorno paesano la ricognizione archeologica del bric di Pinarella (o Pianarella) davanti al già nominato altopiano delle Manie ha rivelato segreti straordinari che ci portano assai indietro nei secoli. Sebbene molte siano le difficoltà nella lettura di un’area così, dove il terreno carsico e l’azione fortemente dilavante della pioggia rendono ben ardue le ricostruzioni dei contesti, si è tuttavia riusciti ad avanzare delle ipotesi con qualche punto fermo. Complesso cerimoniale, sepolcrale nonché osservatorio astronomico fin dalla notte dei tempi lo studio del posizionamento delle pietre in situ ci parla di un luogo sacro, frequentato e riconosciuto come tale nel plurimillenario avvicendarsi della vita umana da queste parti.

Studio di archeoastronomia sul Bric di Pinarella (o Pianarella)

Tanto per non farsi mancare nulla Finale vanta anche un museo diffuso e un paio di anni fa è stata al centro di un’interessante iniziativa, volta a riscoprire la cultura dei tarocchi insieme all’associazione faentina “Le Tarot”, che ha collaborato alla realizzazione di una mostra ideata appositamente per valorizzare il borgo antico.

Le Manie da Finale Ligure
Plenilunio d’agosto a Finale Ligure

Fotografie di Claudia Ciardi ©


Bibliografia e documenti per approfondire:

CODEBÒ M., DE SANTIS H., PESCE G. 2011, L’osservatorio in
pietra di Bric Pianarella (SV)
, in “Astronomia culturale in Italia”,
Società Italiana di Archeoastronomia, Milano, pp. 177–185.
Stone Observatory/Academia.edu

Altre notizie riguardanti il sito di Pianarella qui: Due passi nel mistero. Studi e ricerche

Sulla mostra di Finalborgo dedicata alla storia dei tarocchi si veda l’articolo di Exibart: Tarocchi. Gioco, divinazione e magia (Oratorio dei Disciplinati, 2022)

Recensione della ricerca di Anna Giulia Cavagna_La biblioteca di Alfonso II Del Carretto marchese di Finale. Libri tra Vienna e la Liguria nel XVI secolo_Finale Ligure / Centro Storico del Finale, 2012

La Pietra del Finale e il museo diffuso

Quasi un catasterismo

Hannsjörg Voth, architetto e artista tedesco pioniere della land art.
Formatosi alla Scuola d’Arte Statale di Brema all’inizio degli anni Sessanta, ha poi intrapreso l’attività di grafico pubblicista a Monaco di Baviera a partire dal 1968. Contemporaneamente ha iniziato a lavorare come pittore e disegnatore freelance, affermandosi sempre di più dagli anni Settanta in avanti.
Qui un bozzetto dell’opera Goldene Spirale [Spirale aurea].


Per me febbraio significa i ricordi d’infanzia legati ai paesaggi invernali della Versilia con il corso mascherato. Le Alpi Apuane già si amalgamavano al mio sguardo nei limpidi pomeriggi assolati; io non ne avevo ancora consapevolezza ma assiduamente, silenziosamente quella poesia preparava in me le sue strade.
La rotta che poi, per i casi della vita, ho potuto percorrere fra la costa tirrenica e le Alpi piemontesi ha rinnovato l’incantesimo. La chiarezza dei profili alpini innevati è uno spettacolo di rara maestosità che dentro di me, in questo periodo dell’anno specialmente, ravviva molteplici stagioni del prima e dell’ora. Mentre nel mondo accade l’indicibile questa dimensione di trasognato nitore è un dono che brilla di luce propria.
Torino mi scuote, poi mi raccoglie e assolve decine di volte al giorno. E io la amo anche per questo, perché è il caposaldo della mia rotta. Se la città non si è spezzata, soprattutto in questi ultimi anni, è anche per la sua solidarietà silenziosa, per i suoi mercati che conservano un’autenticità affabile, popolare, per una gentilezza ostinata che si manifesta senza chiacchiere, senza belletto ma che sa quando intervenire, quando far breccia.
Il sole del tardo pomeriggio alla Tesoriera che si insinua fra le ultime tracce di neve ai bordi del prato, le Alpi che s’innalzano ovunque come fondale e corona, le vetrate a colori nei lunghi corridoi di palazzi che trasmettono l’intimità di tutti quelli che da almeno tre secoli a questa parte ci hanno abitato, sono per me una proiezione del lungo viaggio dell’infanzia, dalle montagne di fronte al mio mare a qui.

Avevo lungamente rimandato la lettura della conclusione di un libro. Mancavano poche pagine ma finito il mio isolamento lo riposi, non curandomene più. Il racconto aveva assolto il suo compito di tenermi compagnia nel silenzio e nella stanchezza del mondo. Risvegliata da quella condizione, mentre imparavo ad aggirarmi in una solitudine nuova imposta dalla convalescenza collettiva, il bisogno di sapere come “andasse a finire” divenne secondario, poi del tutto indifferente. Però quelle righe in sospeso, sconfessate proprio quando erano sul punto di rivelarsi, mi riaffioravano di tanto in tanto come un rimprovero. Arrivavo perfino a pensare che qualcosa non fosse andato per il verso perché mi ero sottratta a un monito. Come un capitolo che non si è voluto chiudere né affrontare per timore degli esiti. E siccome già altre volte nella vita ho provato in prima persona che un evento non è completamente aggirabile, che se pure ci illudiamo di averlo eluso, resta ai bordi del nostro sentire come un’esistenza non pacificata, è fatale ritrovarlo. Può anche darsi, quando ci si ripresenta sulla strada, che non abbia un volto amichevole ma venga con pretese accompagnate a modi sommari, per vendicarsi della trascuratezza che gli abbiamo destinato.
Quanto alla mia negligenza letteraria, accampavo scuse. Che le condizioni per cui mi ero avvicinata a quel libro non sussistevano più, quindi anche la chiusa diventava blanda, inefficace il suo messaggio. L’averla ignorata non era insubordinazione ma asciutta conseguenza di qualcosa che era venuto meno, che aveva smarrito la propria voce. Allora perché continuare a pensarci? Infine un giorno, non so dire il motivo, ho deciso comunque di saldare il mio debito. Sono tornata a quelle pagine ammutolite, ferme a un pomeriggio di due anni prima. E ho capito. La fine del libro, letta allora, semplicemente mi sarebbe scivolata addosso senza parlarmi. Affinché la parola si esprimesse davvero, altro avrei dovuto vivere per quella durata esatta in cui il seme interrato nelle pagine si fosse aperto una via verso la superficie dove avevo continuato a respirare. Così seppi che l’ultima immagine di quella storia era legata alla costellazione della Freccia che tuttavia mancava il bersaglio, risparmiando il Cigno. Sentii sciogliersi un nodo. Lo percepii come il mio stesso catasterismo.

Che ci saremmo incontrati e non incontrati, e in questo andare paralleli saremmo stati tanto vicini quasi da toccarci, perfino compenetrati a momenti, lo ha scritto qualcuno per noi. L’esserci riconosciuti in quel ritratto ci ha fatto paura né possiamo averne biasimo. Era troppo da spartire. Del resto in quell’oracolo si raccontava in dettaglio anche la nostra fuga. Terrena la tua, nella cadenza dei cieli la mia, continuando a scambiare nei nostri pensieri questi due elementi che non abbiamo osato mischiare.

È la poesia, è la poesia che mi distoglie, per riportarmi inesorabilmente a me stessa. Lo so, lo so. Ancor più per questo sono leale con lei. Perché mi ha sempre detto e predetto tutto quello che sarebbe stato e non stato. E considero la sua infallibile forza a cui mi affido, il più limpido retaggio.

Alpi
Fotografie di Claudia Ciardi ©

Storie d’arte e d’ispirazioni torinesi

Il capoluogo piemontese prosegue e incrementa un dialogo fra arti, creatività e poesia con iniziative capillari e diffuse. Proprio in questi giorni è arrivata anche la consacrazione sul «Financial Times» che premia il Piemonte come una delle compagini più dinamiche a livello europeo per strategia del territorio. Di sicuro la regione sta mettendo in campo tante energie e Torino è una fucina in cui confluiscono molti punti di vista, non necessariamente allineati o prevedibili. Già qualche anno fa alcuni media esteri, fra cui la CNN, invitavano a scoprire la capitale sabauda quale alternativa alle mete italiane tradizionalmente più conosciute e pubblicizzate, nell’intento di alleggerire i flussi turistici sempre e solo diretti verso gli stessi centri. In questi mesi ho avuto modo di confrontarmi con diversi progetti legati all’inclusività, alla valorizzazione del patrimonio culturale, alla creazione di modelli gestionali di comunità nelle province di montagna e nei tessuti urbani. Oltre ad aver seguito gli ultimi eventi organizzati nel circuito delle mostre d’arte e della divulgazione poetica, come quello di “Arte Città Amica” che mi ha coinvolta in prima persona, in occasione del ventennale della storica associazione torinese.

Luci d’artista a Torino

Desidero quindi segnalare il ciclo di esposizioni dedicate dall’Accademia Albertina alla propria collezione fotografica. Iniziato con “La fotografia e le arti” (ottobre 2023), si concluderà con gli “Orientalismi” il prossimo luglio. Per la prima volta una serie di documenti misconosciuti al pubblico escono dai caveau e sono visibili in Pinacoteca. L’Albertina è un luogo che tende a essere meno visitato tra i poli museali torinesi pur trattandosi di uno spazio estremamente meritevole, denso di memorie storiche per capire la città e avvicinarsi al suo passato-presente. È inoltre ripresa la tradizione di ricostruire le vicende di un’opera inedita nell’ambito del percorso tematico di volta in volta proposto. All’interno della sala dei cartoni gaudenziani, anche attraverso modalità interattive, riprende vita un quadro, un progetto in parte se non del tutto andato perso o della cui esistenza poco o nulla si sapeva.

*Depliant informativo dell’Accademia Albertina

Qualche giorno fa è stata poi inaugurata la personale del fotografo Michele Pellegrino nei locali di Camera. Un allestimento offerto come un’antologia da sfogliare, suddivisa in sezioni rappresentative dei suoi principali filoni di ricerca: Esodo. Storie di uomini e di montagne; Visages de la Contemplation; Scene di matrimonio; Le nitide vette; Langa. È il battesimo ufficiale fra i grandi autori italiani, culmine di un percorso che ha visto l’arte di Pellegrino protagonista di tante rassegne – ricordo sempre a Torino Persone presso la Fondazione Bottari Lattes – e così via nel resto del Piemonte e fra le pagine di altrettante intense pubblicazioni: gli ultimi cataloghi per Electa Prima che il tempo finisca e Io il covid e le nuvole, e ancora risalendo a ritroso i racconti fiabeschi di Il silenzio magico della montagna, Alta Langa. L’altra collina, Incanti ordinari. Perciò mi auguro che presto ci sia la volontà di replicare con un’iniziativa che magari dia spazio anche a un excursus dei libri a stampa che nel tempo hanno accompagnato il suo cammino fotografico.        

Michele Pellegrino_Allestimento per Camera Torino_Le nitide vette
Michele Pellegrino_Allestimento per Camera Torino_Le nitide vette_Peuterey

A chi voglia infine incontrare l’arte in un contesto autentico e confidenziale suggerisco una visita in Via Rubiana alla galleria di “Arte Città Amica”. Ringrazio Raffaella Spada per il tempo che mi ha dedicato, per gli incoraggiamenti e i consigli che mi ha dato sui materiali e le tecniche – in generale direi una lezione di vita –  e per gli artisti che mi ha presentato. Ispirazione principale di questo gruppo è il nesso che unisce segno pittorico e parola, al centro peraltro della mostra allestita questo mese e aspetto che considero centrale nella mia stessa indagine. Una bella serata trascorsa al riparo e al caldo, pure in senso emotivo, in una Torino ancora abbastanza infreddolita. Fra le stazioni di Racconigi, Rivoli e Monte Grappa è bello sapere che ci sia un rifugio così accogliente dove si aggirano presenze gentili, anche queste appartenenti a una storia torinese ben diversa dalle contrapposizioni e disattenzioni che purtroppo fin troppo spesso ci sono state riservate dagli ultimi anni.   

La Galleria di Via Rubiana
La mostra della Galleria di Via Rubiana

Le mie montagne per “Arte Città Amica”


Fotografie di Claudia Ciardi ©

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Torino capitale della fotografia

Complessità culturale nella vita liquida

Automazione, informatizzazione e passaggio al digitale – della pubblica amministrazione, dei patrimoni culturali e di moltissimi settori in contatto diretto o ravvicinato con la nostra quotidianità – stanno determinando mutamenti estesi e profondi nei modi di relazionarci, di intendere il lavoro, scisso fra alcune possibilità aperte dalle nuove tecnologie e la perdita di occupazione, e dunque una non aggirabile condizione di incertezza, precarietà economica e conseguente disagio. 
Quando il direttore del Museo egizio di Torino ha di recente prospettato la realtà di un museo gratuito, in molti si sono detti contrari e contrariati. Ma l’atteggiamento di chi sembrava abbracciare chissà quali rivoluzioni in questo stesso settore, per poi mostrarsi fra i più reazionari, ormai non mi sorprende più. La gratuità non deve spaventarci, non va vissuta come un incubo ingovernabile. Semmai bisogna iniziare a ragionare su come intervenire per destinare risorse laddove altre se ne possono liberare; il dono dell’automazione e dell’utilizzo delle intelligenze artificiali – purché sia un uso controllato e indirizzato dall’essere umano – necessita di una governance, che va pensata per tempo, e che ovviamente non potrà non valersi di qualità creative, di fantasia e in buona sostanza d’immaginazione. Temere una deriva di sregolatezza rispondendo con chiusure irrazionali, significa rinunciare a essere interpreti di quanto sta accadendo. Mentre è importante coglierne l’alto potenziale di libertà a un preciso e più saldo livello di responsabilizzazione.
Il cambiamento è già in mezzo a noi, tant’è vero che ne stiamo osservando rovesci e problematiche. Esserne osservatori passivi, vuol dire desistere dal comprenderlo e volgerlo – almeno provarci – in situazioni vantaggiose. Quello che ha affermato il direttore Christian Greco solleva pertanto una questione di enorme attualità, che coinvolge l’impostazione politica, che quindi si riflette su una serie di altri orientamenti e scelte. Una questione strutturale, di metodo, direi. Nei miei articoli ne parlo da diverso tempo e, lo ammetto, anche forse in alcune forme piuttosto immature quando si ragionava sui primi modelli di reddito di cittadinanza o universale. È un argomento irritante per alcuni, lo capisco, ma non è evitabile. L’estrema esasperata condizionalità con cui il lavoro appare e scompare, e aggiungo anche la sensazione che i modelli e i contenuti formativi siano sempre non dico un passo indietro, ma un centinaio, rispetto alla velocità di quel che ci costringe di continuo a ripensarci, non permettono tentennamenti al riguardo.

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Non è un caso, per fare un esempio in linea con queste urgenze, che proprio nell’ambito del dibattito culturale – almeno fra soggetti realmente e autenticamente in campo per trovare soluzioni e un po’ meno preoccupati dagli avanzamenti e riposizionamenti delle proprie carriere – sia molto sentito il tema della riconoscibilità delle professioni artistiche e, più ingenerale, dell’inclusività delle diverse figure operanti a vario titolo in tale settore. E ancora, fra i vari rilievi emersi ad esempio durante la conferenza di “Minicifre 2023” tenuta a Roma lo scorso 6 dicembre, si è ribadita l’importanza di incrementare osservatori aggregati del territorio per leggere, elaborare e armonizzare al meglio i dati della cultura. Trattandosi infatti di un mondo multidimensionale, con molti attori, dove peraltro l’intervento politico relativo ad alcune aree sembra incerto, prima della lettura statistica, ovverosia dei consumi, occorrerebbe tener presente la pratica culturale (o esperienza culturale), cioè il coinvolgimento, il tempo dedicato dal cittadino alla cultura. In concreto, seguendo quanto detto in questa occasione dalla professoressa Annalisa Cicerchia, economista dell’Università di Tor Vergata, più che misurare gli ingressi nei musei, come ci si ostina a fare, sarebbe opportuno misurare il tempo trascorso da una persona in un museo. Dunque tenere in mano il metro della qualità di una visita, che comprende un insieme organico di fattori, non solo l’entrata-uscita da un luogo ma cosa quel luogo è in grado di trasmetterci (e cosa può cambiare dentro di noi) durante e dopo il nostro percorso.
Come correlato si rimanda ai tracciati esperienziali dell’immersività che negli ultimi anni, specialmente nel periodo della pandemia, hanno contribuito e stanno contribuendo alle maggiori e più articolate considerazioni sul comunicarsi dell’arte, sui nodi psicologici della multisensorialità quando incontriamo (e attraversiamo) gli oggetti d’arte.

Minicifre_Roma_6 dicembre 2023

A monte di tutto si pone è chiaro un richiamo all’etica. In sintesi, le pubblicistiche possono aiutare un po’ ma bisogna che poggino su basi solide, su contenuti. Se la pubblicistica arriva a oscurare i contenuti, quando non a calpestarli, è solo un clamore fine a stesso, incomprensibile e controproducente. E uno spreco di denaro pubblico. Con la crisi economica e con i danni aggiuntivi causati da eventi atmosferici aggressivi che impattano su infrastrutture mal costruite, già discutibili e precedentemente discusse, certe propagande e manie di protagonismo meritano un po’ più di una riflessione. In questo scenario liquido, secondo le penetranti letture di Zygmunt Bauman, dove pochi personaggi alla sommità della piramide dimostrano adattabilità, velocità e un impassibile e divino distacco verso chi non ha gli strumenti per navigare e avere successo in queste condizioni – tuttavia non potranno che essere pochi i beneficiari della liquidità, perché come spiega Bauman un simile status genera appunto una struttura piramidale – sperimentiamo in pieno un deficit di rispetto in ogni sfera dell’attività umana. L’insofferenza – o incapacità – al prendere impegno con l’altro, la sensazione di essere sempre spinti via, di non potersi né volersi soffermare su qualcuno o qualcosa mette in crisi ogni minima forma o propensione solidale. Ciò proprio mentre le architetture della coesione sociale – nella forma ultima di questa selettiva piramide – vacillano. Ma che la piramide liquida non poggi su basi ferme è un bene, ed è una fatalità attesa. 

Zygmunt Bauman, Vita liquida, Editori Laterza, Bari 2006
(e ristampe)

Vorrei concludere sottolineando che nel corso di quest’anno – nonostante il carico di pesantezze che certi piramidali prigionieri di vecchi schemi hanno inteso gettarmi addosso – per fortuna ho avuto modo di gestire attività appaganti e parlare e confrontarmi con decine di persone, di età e percorsi professionali assai diversi. Incontrate in viaggio, durante gli eventi culturali cui ho presenziato o in fila da qualche parte. È stata un’esperienza di altissimo valore, direi di grande arricchimento personale. Perché mi sono sempre capitati interlocutori “svincolati”, con idee trasversali e traverse, insomma delle belle menti. Al contrario, devo dire, non si sarebbero avvicinati o non ci sarebbe venuta voglia di parlare. La chimica dei rabdomanti. Tutto ha contribuito agli spunti e agli stimoli che mi hanno avvicinata e per così dire “consacrata” in via definitiva a certi temi che ho sviluppato nei più recenti lavori di scrittura, nelle mie collaborazioni d’arte e in ciò che desidero coltivare nella mia ricerca.

Poesia, amore e pazienza. Sono i principi chiave del prendersi cura. Cura del sé, degli altri e del patrimonio culturale (materiale e immateriale). // Artslife su Linkedin.

Per approfondire:

Fuori rotta. Gli itinerari silenziosi della cultura

L’arte e l’archetipo

Tanagra in Toscana

Archetipo, forma primitiva, radice, matrice, primo volto. Creare è attingere al momento originale, chinarsi alla fonte dell’immaginario collettivo e berne le larve che vi affiorano. Dell’evocazione di questa delicatissima corrente, una sorta di flusso che compenetra chi si appresta all’opera e che si è soliti definire genericamente ispirazione, ho tentato una lettura in alcune mie pagine di recente pubblicazione.

La parola, derivante dal greco ἀρχέτυπον, assume in italiano quattro significati diversi che coprono altrettanti ambiti disciplinari: tecnico-artistico (da notare come la parola greca τέχνη congiunga le due sfere cognitive), filosofico, psicologico, filologico.

Così ci si riferisce al primo esemplare, il modello di un’opera cui altre simili e successive si orienteranno. Quindi nella filosofia, d’indirizzo platonico in particolare, il concetto di idee archetipiche rimanda all’essenza delle cose sensibili. In ambito psicologico, secondo le teorie di C. G. Jung (1875-1961), l’archetipo è l’immagine primordiale contenuta nell’inconscio collettivo, la quale sussume tutte le esperienze dell’umanità e della vita animale che l’ha preceduta, alimentando gli elementi simbolici delle favole, delle leggende e dei sogni. Infine, in filologia, si è soliti definire archetipo il manoscritto non noto ma ricostruibile con maggiore o minor sicurezza attraverso il confronto dei manoscritti pervenuti, da cui questi deriverebbero secondo i rapporti di dipendenza configurati nello stemma codicum, o albero genealogico. Ad esempio, non possediamo l’originale della Divina Commedia di Dante Alighieri – uno dei più clamorosi archetipi mancanti, rovello e passione per molti studiosi – ma talvolta la vicenda familiare dei codici pone in evidenza che l’archetipo stesso sia una chimera. Ossia nella genesi di un testo pare siano entrati in circolazione, fin dall’inizio, esemplari paralleli che rendono vana la ricerca di un solo capostipite.
Tale declinazione filologica è d’uso anche nell’archeologia e nella storia dell’arte: si dirà, statua che riproduce l’archetipo di Lisippo.

Il mio articolo per «Erba d’Arno» (quaderni 171-172), rivista pubblicata con il contributo della CR Firenze, indaga i nessi fra queste discipline, esplorando in che modo le arti e le diverse sfumature linguistiche di archetipo influiscano sia sulle realizzazioni creative sia sui meccanismi di fruizione delle opere stesse.

Accenniamo anche brevemente alla cosiddetta contaminazione fra le arti, come nel caso della poesia, della pittura e scultura. I rapporti e le influenze linguistiche fra Dante e Giotto, quindi i componimenti in versi di Michelangelo Buonarroti che hanno ispirato generazioni di artisti italiani e stranieri, fino all’età moderna, tra cui ad esempio gli espressionisti tedeschi.

«L’entusiasmo che si accompagna a certi ritrovamenti, a scoperte fortuite che all’improvviso ci riconsegnano fra le mani reperti millenari, è innescato da cotali suggestioni. La lontananza che si rifà vicinanza, l’idea di un destino comune che percorre l’umanità, la storia che s’incarna in un segno tangibile spingono l’onda emotiva che abbiamo visto in tante analoghe circostanze. Pensiamo a Tanagra o più recentemente a San Casciano dei Bagni o ancora ai nuovi ritratti del Fayum, affiorati dall’oasi alla fine di quest’anno, trascorso più di un secolo dall’ultima fortunata campagna.  Idoli del sacro e del profano, una quotidianità estatica che sopraggiunge a scrutarci, dee-madri che allattano, giocano coi loro bambini, impugnano il fuso, tessitrici che imitano il gesto delle Parche». (Claudia Ciardi, L’arte e l’archetipo. Specchio di vita immortale, giugno 2023).

https://www.tumblr.com/claudiaciardiautrice

Pistoia, una defilata città – solo in apparenza – ma da sempre spazio in fermento e fucina di molte iniziative. Capoluogo toscano meno frequentato dal turismo, crocevia affascinante di creatività e culture (da «Erba d’Arno» quaderni 171-172, rubrica “Editoria pistoiese”, pp. 132-133).


Calligrammi, una personale esplorazione nella mia scrittura del legame fra linguaggio verbale e figurativo. La riproposta sul mio profilo tumblr della prosa In ogni filo d’erba, omaggio ai borghi liguri, alla mia permanenza sanremese e a Giorgio de Chirico. Grazie a chi continua ad apprezzare questo testo (e a farmelo sapere!).