Sibille delle isole e relazioni culturali

Pochi territori al mondo favoriscono il confronto e la commistione culturale come le isole. Si potrebbe pensare il contrario, in quanto luoghi talvolta inaccessibili, spesso lontani dalla terraferma e, come per l’appunto ci ricorda il sostantivo che le designa, isolati. Invece, è proprio qui che le diversità approdano e convergono, dando vita a modelli peculiari, resistenti, inattesi. Su un carattere intriso di indubbi tratti conservativi, tant’è vero che simili ecosistemi, laddove il turismo non sia arrivato con i suoi flussi eccedenti, tendono a mostrarci qualcosa di perduto, si innesta anche un’attitudine all’apertura, all’interazione. Questa fluidità isolana instaura confini mobili nello spazio e nel pensiero in un processo inverso rispetto al continente.  

Proseguendo la nostra ricognizione sulla Grecia antica, le isole ci si offrono come osservatori privilegiati di tali dinamiche. In età alto-arcaica molti di questi ambienti ospitano comunità miste e i santuari, soprattutto, divengono centri di assimilazione religiosa e culti condivisi, nonché strutture di riferimento per la comunicazione interculturale. Riprendendo una definizione più che calzante di Lewis Mumford (1961), nei santuari greci si dispiega l’incontro con gli altri e, dunque, «un nostos verso le proprie radici», ossia un processo di ritorno e recupero identitario da parte dei nativi.

Ciò è comprovato dall’osservazione di due classi di fenomeni in particolare: l’elaborazione di un linguaggio sacro relativo alla sfera santuariale da parte di una comunità mista insediata su un’isola; la dedica di oggetti votivi nei santuari locali. Sono le tematiche a cui lo storico e antichista Giorgio Camassa ha dedicato un ciclo di saggi raccolti in un volume che nel titolo evoca, non a caso, la figura della Sibilla. Negli articoli precedenti si è dato rilievo alla natura sibillina come elemento sovrastrutturale, figura tratteggiata da un immaginario collettivo svincolato, non istituzionalizzato coevo alla movimentata temperie dell’ellenismo arcaico. Per inciso, la sua collocazione a Samo o nell’Ellesponto – secondo le numerose genealogie ex post – confermano nella geografia il sentimento di naturale vicinanza a orizzonti irrequieti e frammisti che si accompagnano a questa creatura sacra. La Sibilla giudaica, frutto delle tensioni storiche che investono la compagine mediorientale fra il III e il II secolo a. C., incarna e rovescia i codici oracolari della tradizione, riflettendo il punto di vista delle comunità ellenizzate. Siamo ancora una volta di fronte a una testimonianza spirituale che accentra in sé un destino storico. Il distacco fra le comunità ebraiche di Alessandria e Gerusalemme in cui si inseriscono le mire dell’impero romano sulla regione offrono uno spaccato della convivenza fra l’etnia greca, egiziana ed ebraica oltre a richiamare la nostra attenzione sul perpetuarsi dell’incontro-scontro tra Asia ed Europa, fra Oriente e Occidente. Proprio il ricorrere di questo motivo costituisce l’ossatura degli Oracoli Sibillini ben prima del I secolo a. C., periodo al quale vengono di solito riportate le sezioni di testo del terzo libro, il più composito e stratificato della raccolta e dove maggiormente si esprime la visione del giudaismo ellenistico in Egitto.  


Ricordo per inciso la mia narrazione dedicata alla biblioteca alessandrina presentata all’inizio dell’anno al Museo italiano di scienze planetarie di Prato, attraverso cui mi sono soffermata sull’Heraion di Samo e le vie commerciali e sapienziali aperte lungo questa rotta con la città tolemaica. In un resoconto riguardante la fioritura umanistica e scientifica – dall’astronomia alla medicina – negli stessi anni in cui si era intrapresa la costruzione del faro e il medico Erofilo disegnava il primo abbozzo del sistema vascolare umano, ho dato risalto proprio agli aspetti dell’incontro e del meticciato culturale. Una condizione che non significa assenza di attriti o di fasi conflittuali. Rappresenta tuttavia un’atmosfera di grande interesse per ciò che si diceva in apertura sulle interazioni plurisecolari nelle frontiere isolane e nei territori costieri.  
Tornando, sempre a tale proposito, alle trattazioni di Camassa mi sembra di non secondaria importanza l’esercizio sulle fonti a cui ci invita. Nel confronto tra arcaismo ed ellenismo, che abbiamo toccato nel presente articolo a partire dagli sconfinamenti identitari e dalla loro riaffermazione, è importante non liquidare la fonte letteraria tarda come meno veritiera. Pensare quest’ultima come poco attentibile in quanto lontana dal periodo in cui una tradizione si è formata, è un argomento blando. In questo metodo risuona anche la lezione di Silvio Ferri che abbiamo precedentemente analizzato e che ci permette di abbracciare in modo meno pregiudiziale e con maggior successo i molteplici aspetti mitologici e rituali di cui si compone un frammento del passato, specialmente per quel che concerne le figure del pensiero, le mentalità, integrando tradizioni orali, archeologia e opere d’arte. Solo così e ragionando sul tempo in termini duttili, porosi, all’occorrenza incoerenti è possibile farsi un’idea del cammino avventuroso e affatto lineare degli esseri umani e dell’impronta che la loro immaginazione ha lasciato in eredità al mondo.

🌏«L’utilità della geografia, intendo dire, presuppone che il geografo sia un filosofo, un uomo che impegna se stesso nella ricerca dell’arte di vivere, o detto in altro modo, della felicità». (Strabone, Geografia, I, 1, 1)
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I volti del sacro nel mondo antico / The faces of the sacred in the ancient world. My lecture on YouTube with English subtitles

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* Alcuni dei temi trattati in questo articolo sono alla base della mia raccolta poetica d’esordio:
Claudia Ciardi, Umana Sibilla, con una prefazione di Daniele Regis, Setart Edizioni, aprile 2025

La Sibilla negli scritti di Silvio Ferri

Prima di entrare in argomento una premessa è d’obbligo. Non con intento polemico ma per necessità di constatazione. Lamentiamo spesso l’incoerenza, la spaventosa noncuranza del nostro tempo. Ebbene, per comprendere quanto caotiche siano di fatto le nostre vite e, di riflesso, i luoghi in cui ci aggiriamo consiglio un semplice esperimento. Provate a leggere un centinaio di pagine di filologia classica e storia delle religioni all’aperto; vi illudete di sistemarvi in giardino o in un luogo tranquillo ma non troverete quiete in nessun momento. I rumori di fondo, ininterrotti, generati dalle più disparate (disperate!) attività stringeranno d’assedio la vostra concentrazione. E poi, più impegnativa la materia, più intensa la sensazione di perdersi.   

Chi dunque resiste ancora? Il lettore è ormai un’individualità respinta, scoraggiata. Forse, quando si parla di disaffezione nei confronti dei libri, bisogna mettere in conto anche questo. Non si tratta di un effetto secondario, perché se la sottrazione di spazio e di tempo a tutto quello che tende a farci ricordare chi siamo è pressoché continua, poco rimane.  

L’altra desolante verità è che non siamo più i figli di una società del silenzio. Un’orfanezza che, chinandosi sulle voci del mondo antico, il quale ancora aveva ben cari e sacri i suoi silenzi soprattutto, si avverte in misura perfino maggiore.

E vengo finalmente alla Sibilla di Silvio Ferri, classicista e archeologo originario di Lucca, che scrisse queste pagine, bisogna dirlo, fra il ’14 e il ’15. L’Italia entrava in guerra, e non si può dire che gli esseri umani non fossero immersi nelle loro turbolenze. La quiete della terra venne guastata per molto tempo, ben al di là anche del concludersi del conflitto. Tuttavia l’intento di preservare certe sensibilità non vacillava. Tali figure di studiosi, profonde e integre, dimostrano nella limpidezza del metodo, nel perdurare delle loro lezioni una volontà ferma e perfino soccorevole nei confronti di ciò che avrebbe potuto salvarci dalla dispersione. 

In scia a Brelich e De Martino, interpreti acuti nonché maestri di sintesi destinate ad aprire vie nuove negli studi, Ferri dà un saggio delle sue metodologie cimentandosi non a caso in una rappresentazione della Sibilla, senz’altro la questione più complessa nella storia della religione greca. Gli preme mostrare come un argomento sfuggente e per molti versi contraddittorio, riesca a farsi osservare in una luce appena più nitida, se solo non si smarrisce l’idea di base che orienta la propria riflessione. Mentre passa in rassegna le fonti, antiche e moderne, ne discute le storture lasciando galleggiare quei punti saldi che via via vengono a disegnare l’arcipelago del suo pensiero. Il lettore, anche profano riguardo l’antichità, si addentra in tale discussione sentendosi accompagnato, addirittura dopo qualche pagina calandosi agilmente nel modus operandi dell’autore.

Dal rilievo fondamentale del distacco fra tradizione leggendaria e artistico-letteraria alle peculiarità esclusivamente italiane del racconto, alle biforcazioni continue tra storicità e idealizzazione della profetessa, Ferri ci permette di avvicinare e rendere comprensibile quello che diversamente si nasconderebbe sotto la goffaggine di una mano non sistematica. Sibilla è una creatura che si riveste di molti panni e personalità, culturali e cultuali, attraversando diverse aree e fasi storiche che dal cuore ellenico-orientale la conducono alle rive latine e medioevali dell’occidente. In questa immutata mutevolezza si disfa e rinasce una figura idealizzata ma anche incarnata; non v’è dubbio infatti che «nella memoria, nella leggenda, nella definizione filosofico-teologica la Sibilla ama rivivere contemporaneamente nella sua spoglia materiale di donna». (S.F.)

In quell’epoca piena di promesse che va dall’VIII al VI sec. a. C., di poco successiva alla poesia omerica e subito antecedente all’elaborazione filosofica, ecco apparire nella devozione dell’antica Grecia un germoglio mistico al di fuori della cosiddetta religione di Stato, in rappresentanza forse di un credo popolare che proiettava su tali donne una forma di sapienza e grazia divina. La longevità da cui Sibilla è rinata nell’ebraismo e nel cristianesimo, divenendone ipostasi e messaggera, attesta come il sostrato delle sue origini abbia i piedi ben saldi in un ampio immaginario collettivo.

Profetessa degli dei e profetessa del figlio di Dio, senza soluzione di continuità, nel segno di un simbolismo imperituro e risorgente. Si pensi all’acrostico ἰχθύς (pesce), più o meno accettato interamente dalla letteratura patristica, con la sua straordinaria evocazione di immagine-parola, e la risonanza poetica che reca in sé.

Lo scritto di Silvio Ferri ha il pregio di interrogare il passato e interrogarci, quasi replicando nel suo impianto l’essenza stessa del proprio oggetto. Come la Sibilla, non si compie né compone, non si esaurisce del tutto, e in tale fuggevolezza consiste per l’appunto la più vivida traccia della sua identità.


* Un doveroso appunto sul mio lavoro. Vedo che l’IA di google associa la mia opera a Una donna di Sibilla Aleramo. Posto che il parallelo mi onora, andrebbe tuttavia preso molto alla larga. Tanto più che all’interno della sinossi viene riformulato meccanicamente quanto arbitrariamente un giudizio approssimato e poco felice all’indirizzo del romanzo della Aleramo, che sembra perciò riferirsi anche alle mie poesie. Si tratta di un’informazione fuorviante, ci tengo a precisarlo. Al di là del fatto che pure nella mia esperienza personale, dunque in linea con la tradizione contemporanea, la Sibilla incarna un modello femminile di forza e indipendenza, la raccolta poetica di cui sono l’autrice poggia su basi differenti, fondate come detto nell’immaginario antico. Dunque, se volete conversare con me a proposito del mio libro, scrivetemi. Avrò il piacere di raccontarvelo.

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Claudia Ciardi, Umana Sibilla, con una prefazione di Daniele Regis, Setart Edizioni, aprile 2025