Leggere l’arte

Il libro in qualità di oggetto d’uso o riprodotto in rappresentazioni di pittura e scultura si candida a incarnare nel corso della storia una doppia valenza come strumento sapienziale e simbolo di questa caratteristica speculativa. La sua comparsa sulla scena dell’arte, spesso affiancato al ritratto di un lettore più o meno illustre, celebra l’emancipazione culturale e sociale, avvenuta nel tempo, di un numero sempre più vasto di categorie umane alla ricerca della propria identità pubblica e privata. Una conquista lenta e inesorabile che si accompagna all’invenzione della stampa e, dunque, alla graduale consapevolezza dei cambiamenti prodotti da una circolazione più veloce e ampia della cultura.

Espressione verbale, segno grafico, creazione pittorica vengono così a stipulare una longeva alleanza che si nutre della medesima facoltà immaginativa. Parola e disegno sono infatti due costellazioni complementari, che si possono pensare nello stesso cielo, che servono volentieri un comune intento divinante e, dunque, una natura similmente ispirata.

A dispetto di cori lamentosi annunciati da vessilli di resa – voci di un passato recente e già oltremodo vetusto – noi guardiamo alla vera antichità, autentica fonte di cultura. Diverse concomitanze ci stanno riconsegnando le tracce di una storia potente. I Fori imperiali rinnovano il loro splendore, anche attraverso il riposizionamento di trecentomila sanpietrini – pietra su pietra, passo su passo. Dopo mille e cinquecento anni si è riportata l’acqua alle Terme di Caracalla, elemento costitutivo e fondante di quelle architetture. A Piazza Pia riaffiorano il Portico e i giardini di Caligola.

Un’urbanità sepolta si scuote dal torpore e bussa alle soglie del nostro tempo, densa di messaggi, carica di attese. Ancor più sentiamo il bisogno di esserne custodi e interpreti. Raccogliere questi indizi trasmette forza alla nostra stessa idea di arte, di disegnatori e costruttori del contemporaneo. In ciò riprende vigore anche il convincimento che le idee non siano negoziabili. E quando sono veramente ispirate e sostenute dalla genuinità dei sentimenti diventano incontenibili.

Per questo rito di unione fra arte e scrittura il SetArt 2024 non poteva che tenersi a Roma.

Libri come opere d’arte

Il libro come opera d’arte_GNAM di Roma_(2006)

Nei secoli, a partire soprattutto dall’invenzione della stampa con il diffondersi dei formati alla base dell’odierna editoria, il libro gradualmente si trasforma aprendosi in epoca moderna a possibilità comunicative impensate. Copertina, dorso, legatura, tagli divengono spazi in cui provare effetti cromatici e aggiungere elementi decorativi per renderlo riconoscibile e attraente. L’ausilio della grafica è visto come sempre più funzionale a porgerne i contenuti, a comunicarli attraverso l’immediatezza che il linguaggio figurativo reca in sé, in dialogo e perfino esplicita mescolanza con la parola. Ma non si tratta solo di una simile conquista. Dall’inizio del XX secolo, e già nel corso dell’Ottocento, in concomitanza con le avanguardie storiche, il libro è visto in misura crescente come vero e proprio banco di prova per sperimentazioni e creazioni d’arte. A partire da questo momento non s’intende più come tradizionalmente legato al testo letterario, ma lo si valorizza in quanto veicolo di un insieme di segnali e di suggestioni finalizzati alla discussione e al rinnovamento dell’espressione artistica stessa. Sotto la sferza del futurismo nostrano, soprattutto in scia alle idee di Filippo Tommaso Marinetti, pur filtrate dal futurismo russo, il dada e il surrealismo, si comincia dunque a pensare al libro come oggetto d’arte a se stante. Fra i principali fautori e interpreti di questa rivoluzione si annoverano Fortunato Depero, Emilio Isgrò, Dieter Roth. Quest’ultimo, nato a Hannover nel 1930, attivo dopo la seconda guerra mondiale, in qualità di poeta e grafico si è a lungo confrontato con i libri, decostruendo e sovvertendone per così dire la forma in modo molto originale.

Scortati da cotali personalità possiamo già dirci in mezzo agli arcipelaghi del cosiddetto libro d’artista, pur tenendo conto dell’arbitrarietà che una formula di questo tipo comporta, posto che si tratta di una cosa ben diversa dal libro d’arte con cui si definisce un manuale o un catalogo relativo alla storia o alle iniziative legate a detta disciplina. Un’ampia zona di navigazione che riceverà ulteriore impulso negli anni Sessanta e Settanta, cimento per molti creativi nei ranghi dei più svariati movimenti, dall’arte concettuale all’arte povera, versati in diverse pratiche dalla scrittura alla musica. Il libro si offre come una galleria tascabile, un piccolo museo itinerante, libero, aperto, fluido che rompe gli schemi della fruizione del pensiero e irrompe nel dibattito culturale. L’editoria indipendente, con speciale riguardo ai libri d’artista, fiorisce non a caso nel suddetto decennio sospinto da mescolanze, esperimenti e moti libertari fra ubriacature sessantottine e più o meno rapide disillusioni. Qualsiasi sia la categoria verso cui propendiamo – libro artistico, libro figurato d’autore o libro oggetto – sia questa limitata a pochi esemplari o riprodotta in elevate tirature, siamo sempre e comunque di fronte a una creazione frutto di un’esperienza unica. Il libro è a tutti gli effetti un’opera d’arte o in quanto oggetto o in quanto contenuto. Ne risulta “scardinata” la funzione sua propria, oltre che la forma, per servire del tutto la comunicazione artistica. Uno sviluppo che si nota molto bene nella serie dei cosiddetti libri illeggibili di Bruno Munari, in cui il celebre designer italiano punta unicamente, non senza una certa dose di provocazione, sul medium visivo. Nel solco della storia qui percorsa per sommi capi si ricorda infine un ciclo di eventi di qualche anno fa, in occasione dei riconoscimenti conferiti dall’Unesco a Torino e a Roma come capitali del libro e della lettura (aprile 2006 – aprile 2007). Ispirate alla formula scaturita dalla circostanza “Il libro come tema, il libro come opera”, due mostre alla GNAM di Roma hanno indagato visivamente e concettualmente la relazione fra arti figurative e scrittura: Arte e Letteratura fra ‘800 e ‘900 nelle collezioni della Galleria Nazionale d’Arte Moderna a cura di Maria Vittoria Marini Clarelli e Mario Ursino (catalogo Electa); Il libro come opera d’arte – Avanguardie italiane del Novecento nel panorama internazionale, a cura di Giorgio Maffei e Maura Picciau (catalogo Corraini Editore).

Genesi sfuggente quanto sfaccettata di un contenuto longevo e metamorfico non soltanto classificabile come arte. Dalle prime collaborazioni fra scrittori e pittori, soprattutto nel campo del libro illustrato con litografie e xilografie – narrazioni per capitoli e tavole che a loro volta hanno contribuito a tirare la volata alla graphic novel – per approdare alle sintesi più ardite, fra tecnica e miraggi avanguardisti. In questa nuova prospettiva la composizione tipografica e la disposizione della parole non sono semplici aspetti grafici, fermi, identici a se stessi ma dispositivi mobili, incaricati di amplificare il contenuto, di creare una miscela liquida, compenetrante e spiazzante fra significante e significato. In conclusione nasce e viene proposta al pubblico un’altra forma di libro che contempla e rivela come possibili o probabili differenti livelli di lettura. 

Libro con rifinitura marmorizzata blu sul taglio_dalla pagina fb di “Osservatorio Libri. Quotazioni”

Legature con rinforzo, realizzate utilizzando “innesti” di manoscritti.

Dall’archivio Salvo di Torino_Opera attualmente esposta a Genova, Palazzo della Meridiana, per la mostra “Libri nell’arte” fino al 14 luglio 2024
Eugenio Miccini_Poesia (Firenze)_Opera esposta a Genova, Palazzo della Meridiana, fino al 14 luglio 2024

Fotografie di Claudia Ciardi ©

Altri collegamenti:

Libro dipinto

Federica Boragina, Definizione e catalogazione del libro d’artista: limiti, tentativi e il caso Edcat, in “Ricerche di s/confine. Oggetti e pratiche artistico-culturali”

Alessandra Buschi, Cosa sono i libri d’artista: alcuni esempi famosi, in “Lemona”

The book as a theme, the book as a work_GNAM_Roma_2006

Rosa Rosae

Giardino e roseto dell’Esquilino – Roma

Fiore fra le simbologie più complesse e stratificate nel tempo, mitico e storico, incarnazione di contrasti e ambivalenze, al centro di riti, oggetto di credenze e incantesimi, amato da fate e streghe. La presenza della rosa nelle fiabe risale all’epoca medievale, e le qualità magiche che le sono attribuite derivano senz’altro dall’antica associazione alle divinità. Ad esempio nella storia che lega Adone e Afrodite. La dea della bellezza, depositaria di aspetti che la uniscono alla grande Madre, deterge un olio profumato di rose sul corpo di Ettore morto. Gli aspetti ancestrali del femminino, della maternità cosmica, della vita e della sua cura, anche nella morte, si intrecciano alla rosa, alla sua essenza, al suo linguaggio. A tale proposito, nel dualismo di vita e morte, affiorano pure analogie con Ecate, dea infera, conduttrice di anime (psicopompa), e con Iside; nella ventata delle mode orientali della tarda latinità, la devozione isiaca, frutto di sincretismi religiosi, acquista seguaci anche nelle classi agiate. Ne è oggetto il famoso capolavoro di Apuleio, Le metamorfosi note anche come L’asino d’oro. Gli antichi riti funebri in memoria dei morti si chiamavano Rosalia, da cui si sarebbe ereditato l’uso di deporre rose sulle sepolture. Trattandosi di un rituale con ascendenze asiatiche, si ipotizza che a introdurlo a Roma siano stati i commercianti di lungo corso attivi nelle province orientali. Secondo altre ipotesi, invece, le Rosalia nacquero sotto l’impero di Augusto, importate dalla Gallia Cisalpina. C’è chi sostiene che era una pratica diffusa soprattutto tra i militari, che utilizzavano le rose per onorare, in mancanza dei familiari, i loro compagni caduti.

Comunque stiano le cose, un fatto è certo: i romani ogni anno tra il 10 e il 31 maggio si facevano carico di queste festività per onorare chi non c’era più.

A conclusione di quanto detto sin qui, il legame preferenziale con le dee, la sfera sentimentale e sacra, ne ha fatto per antonomasia il fiore del femminile e della femminilità, fisica e spirituale, di cui accoglie e riflette il segreto e il mistero.
I ragazzi iniziano a declinare il latino sillabando il nome della rosa, che è canto già nel susseguirsi di quelle desinenze. Dalla Grecia omerica e arcaica, dove l’aurora ha dita di rosa, a Cielo d’Alcamo e poi ancora nella poesia rinascimentale e barocca, la sua celebrazione in versi non conosce inaridimenti. Fragile quanto longeva e salda, la troviamo disseminata nelle opere letterarie e in quelle d’arte, ritratto di un inscindibile connubio fra sensibilità poetica e figurativa.

Il moto concentrico dei suoi petali rappresenta la ruota del ciclo vita-morte-vita. La rosa è coppa e femmina che conserva e presiede l’eterno ritorno. Attraverso un percorso culturale molto lungo e sfaccettato, dai Pitagorici al romanzo ellenistico – vi si è accennato con Apuleio che a quelle fonti attinge – la rosa diventa l’emblema del segreto (sub rosa) nell’immaginario alchemico ed ermetico.

Link:

La compagnia delle rose

Natura sensitiva – Il fiore e il segreto

Le Rosalia. Feste delle rose

Roseto all’Esquilino
Giardino del Quirinale
Roseto comunale di Roma
Roseto comunale di Roma – Visitabile liberamente fino al 16 giugno

Fotografie di Claudia Ciardi ©

Luoghi e immagini dell’antico

Nella cornice delle iniziative di valorizzazione del patrimonio culturale italiano per il mese di maggio, mentre si preparano gli eventi legati alla notte dei musei, si ripropone una lettura specialistica da considerarsi un prologo significativo per ripercorrere i sentieri delle civiltà che ci hanno preceduti. Si tratta delle Tre variazioni romane sul tema delle origini a firma di Angelo Brelich, da cui ho ricavato alcuni spunti per la mia ricerca sugli immaginari collettivi e i nessi fra simbolo, linguaggio letterario e figurativo.

Dato alle stampe nel 1955 per le Edizioni dell’Ateneo, in collaborazione con “L’Erma di Bretschneider”, affascinante storia d’impresa libraria romana votata ai mondi dell’archeologia e dell’arte, l’emblematico saggio sulla religione agli albori di Roma non è solo una prova della perizia e dell’acume del celebre studioso italo-ungherese ma anche la testimonianza di come la profondità di uno studio possa restituirci un’immagine vitale e relativamente vicina dell’antico. Non perché lo si voglia forzare a parlare con voce attuale ma per le possibilità interpretative che un’analisi non affrettata e aderente ai contesti è in grado di schiuderci. Volgere lo sguardo alle forme culturali e cultuali di un remoto passato non significa considerare involucri vuoti ma estrarre visioni lontane e sfuggenti nella loro sostanza.

Il mito, inteso quale duplicità di azione e parola, è cosa viva come ci ha spiegato in altrettante pagine mirabili Walter Friedrich Otto. «Considerato sotto questo aspetto di azione culturale, il mito riesce comunque più facile ad essere afferrato nel suo giusto senso. […] L’azione culturale è invero l’accadimento divino stesso nel suo perenne ricompimento. […]… il mito come parola, conformemente al significato originario del termine. Che il Divino voglia manifestarsi nella parola, questo è l’evento massimo del mito. E come gli atteggiamenti, le azioni e le creazioni culturali [di cui abbiamo parlato] sono essi stessi mito, così anche il discorso sacro è la manifestazione diretta della figura divina e della sua potenza». (Theophania)

Passando in rassegna il culto prenestino di Fortuna e l’organizzazione calendariale monarchica da Numa a Servio Tullio, cioè vagliando temi storici, antropologici e religiosi su cui le fonti risultano lacunose e gli indizi latitano, Brelich ci dimostra come mettersi su tracce apparentemente labili, se non addirittura immaginando quelle tracce, può svelare approdi obliati, la cui esistenza non si sospettava neppure. Pur nelle cadenze metodologiche stringenti che ne fanno un testo per addetti ai lavori, lo storico si apre dunque a una narrativa ampia, poliedrica che chiama in causa aspetti politici e sacri. Ne esce una sorta di romanzo i cui protagonisti sono luoghi e figure chiave dell’antichità: templi, altari sacrificali, re, dei. Viene allora spontaneo domandarsi cos’abbiano da dirci adesso queste voci, queste personae e i loro sapienti curatori. L’orizzonte culturale e sentimentale che ci mostrano è tutt’altro che superato e riappropriarci di certe sensibilità o almeno tentare di avvicinarle nel nostro tempo dominato dalla fretta, dalle letture superficiali e dalla dimenticanza può senz’altro contribuire a ridefinire una scala di valori in cui offrire alle nostre radici nuovi terreni di crescita.

«Sposterò ogni pietra», frammento 4.22 Adler

«Sposterò ogni pietra», frammento 4.22 Adler [numero 109 nella raccolta
di Parke e Wormell]

L’oracolo è voce e sentiero. Il verbo è il medesimo utilizzato da Archimede: anche lui desiderava scuotere il mondo attraverso l’immaginazione, affidandosi al potere del calcolo e della mente. Il XIV libro dell’Antologia Palatina raccoglie gli oracoli delfici accanto a enigmi, indovinelli, proverbi. Espressioni contigue e tenaci scaturite dalle millenarie fonti della cultura orale, e perciò degne d’ascolto.

Mentre assistiamo alle improbabili acrobazie dei nuovi dei, mentre qualcuno vorrebbe farci adoratori dei nuovi culti, la parola antica ci insegna a prendere le distanze, indica un approdo sicuro, risveglia la sensibilità calpestata. È la sostanza che non vacilla, il basolato che gli antenati scelsero per lastricare le loro strade, è il sasso levigato dal torrente nel respiro della montagna, la pietra che mani sapienti incastrano con l’altra pietra per tirare su i muri a secco a protezione dei campi. 

Nelle fiabe degli antichi l’oracolo è l’inflessione divinante, la cadenza, la pura risonanza. Muti gli interpreti, sigillati i templi, su troppi luoghi il silenzio è sceso per far posto a idoli falsi e ignoranti. Anche sulle nostre stesse pagine, che per noi si legavano nel più sacro dei libri. Così i cattivi consiglieri hanno tentato il loro assalto. Ma la parola tace solo in apparenza. S’interra la parola, come seme, come sguardo che riposa. E in quel riposo vive, sensibilmente giace prendendo coscienza. Corpo in attesa della guarigione. Dicono il tesoro sia sepolto nel recinto della tenda: sposta ogni pietra! Metti in opera ogni arte, assimila ogni intento, sii forte, l’autentico non tarderà a mostrarsi.

Nicholas Roerich

Tra Larthi e le colline romane

La zona delle colline e dei castelli romani offre paesaggi suggestivi che attorniano complessi monumentali e archeologici di grande prestigio, la cui conoscenza passa anche e soprattutto da strategie mirate di valorizzazione e dalla nostra capacità comunicativa. La cultura, intesa come attenzione per il territorio, la sua storia passata e presente, e per tutte quelle testimonianze che contribuiscono all’identità dei luoghi, può fare molto. Può anzi giocare un ruolo decisivo per il rilancio e la costruzione di reti estese alla base dello scambio di esperienze individuali e comunitarie.

Il premio Massenzio, organizzato dal comune di San Cesareo, che fra le sue attrattive vanta un’area archeologica fra le più rilevanti della nostra penisola, la “Villa di Cesare e Massenzio”, è improntato a questo spirito di memoria, conservazione e desiderio di traghettare i nostri valori, le tracce delle origini alle generazioni future. 

Del resto, l’Italia è un paese di molteplici e sorprendenti stratificazioni, naturali, popolari, artistiche. Saperle interpretare, connettere e travasare in contesti fra loro contigui o meno, è alla base di ciò che riesce ad attrarre presenze, incentivare interessi e generare investimenti, intesi a livello di capitale materiale e umano. Viene da chiedersi se la scrittura possa dare un contributo in tal senso. Certamente sì. L’esercizio della parola condiviso fra persone sinceramente e semplicemente ispirate dalle loro rispettive appartenenze ed esperienze territoriali è capace di scendere in profondità, sa motivare ed essere guida.

Campagna laziale fra San Cesareo e Colonna

Ogni discorso sull’identità viene fin troppo spesso ridotto al nazionalismo. Tuttavia, l’idea di popolo e di nazione, proprio a causa di pregiudiziali ideologiche, sono incappate negli ultimi anni in un colossale fraintendimento, volto fino all’autocensura. La nostra storia più recente, risorgimentale, nasce da una precisa e sentita volontà di unire, di identificarci per l’appunto. Un processo che per certi versi non si è ancora concluso, dove il contributo territoriale, civile e narrante di ognuno, perché molte, troppe sono ancora le voci che non hanno voce, attende di avere piena rappresentanza, di trasformarsi nelle ulteriori sfide che scuotono l’attualità, per non dire della tuttora irrisolta questione meridionale. Chiudere gli occhi e spazzare via tutto in nome dell’anonimo salto globalista è, specialmente per un paese come il nostro, qualcosa di innaturale. Una pericolosa stortura.

L’itinerario della Via Francigena nel Sud

La poesia in particolare ci ricorda i sacri legami col nostro passato, i nostri antenati, la nostra terra. E come dice la mia cara amica poetessa di origini russe Natalia Stepanova «la poesia mai sarà morta. È una divinità». L’evento celebrato lo scorso 6 aprile nella biblioteca comunale di San Cesareo, i cui esiti sono stata raccolti nell’antologia del premio dove potete trovare anche la mia poesia intitolata a “Larthi”, la principessa etrusca della necropoli di Cerveteri, s’inserisce nell’ambito delle iniziative dell’area dei Castelli romani e, promuovendo il dialogo fra arte e scrittura, nel concorso di tante energie creative dalle diverse aree geografiche della penisola, intende valorizzare il nostro patrimonio culturale.

Il tramonto dalla “Casa di Grazia”, b&b e ristorante, edificio storico di San Cesareo in Via del Carzolese, abitato da tre generazioni, costruito pietra su pietra nel 1910 (l’anno della cometa di Halley)
Le montagne in una tela a casa di Grazia, dove la passione per l’arte e
la gentilezza sono palpabili
Antologia del Premio letterario Massenzio_
II edizione
Presidente del Premio: Antonella Gentili
In copertina: Tratto del basolato dell’antica Via Labicana

*In questo articolo sono riportati stralci del mio discorso pubblico tenuto durante la premiazione.

*Fotografie di Claudia Ciardi ©

Gli antichi e la montagna


Nel corso di alcune ricognizioni sui paesaggi sacri del mondo antico ho avuto il piacere di riscoprire un bel volume edito da Celid che raccoglie gli atti del convegno tenutosi ad Aosta nel 1999 sulla montagna secondo gli antichi e le sensazioni che in loro suscitava. Non considero casuale questo “affioramento” librario visto che più volte nella cerchia dei sodalizi torinesi ho avuto la fortuna di parlare con chi alla Celid ha lavorato in un periodo di grande intensità per la casa editrice. Questa impresa, nel momento di più ampia diffusione della propria attività, si è valsa di editor accurati, procedendo a dare spazio a temi poco o affatto funzionali alle logiche di mercato, cosa che ha contribuito a un’impronta significativa quanto peculiare nel catalogo prodotto negli anni Novanta. O meglio, le esigenze del mercato di allora – e sono passati neppure una trentina d’anni ma sembra molto di più – contemplavano progetti in grado di resistere al tempo. Il libro, in quanto strumento di conoscenza, era chiamato a inserirsi nella costruzione di un pensiero ben delineato: il che non significa limitato, ma bilanciato e insieme aggettante. Con gli amici torinesi è spesso accaduto di parlare della solidità e durevolezza di certi libri passati, nel senso strettamente cronologico di pubblicati appena qualche decennio fa, rispetto alla nostra epoca di autopromozioni e lavoro creativo in serie. Leggendo simili opere si ha l’impressione di essere costantemente stimolati dalla materia scritta, un qualcosa che non risulta fine a se stesso ma che si apre ad altrettanti interrogativi, alle ipotesi di un dire ulteriore. Questa dimensione policentrica o multifocale, e lo slancio che ne consegue, è ciò che forse oggi manca a molti studi e ricerche. Si tratta infine di un aspetto autenticamente comunicante in quello che intendiamo rappresentare e nel grado di comprensione che vogliamo suscitare.

Dunque il racconto di un lavoro condotto con passione e attenzione nei confronti del materiale manoscritto e degli autori, una storia che ho più volte ascoltato dalla viva voce di chi vi ha partecipato, trova piena conferma in queste pagine. Il tema della cultura e ritualità montana risale dalle pieghe millenarie non come un fossile o una collezione museale dimenticata ma nel pieno dinamismo contestuale delle testimonianze epigrafiche, storiografiche ed epiche. L’immaginario arcaico, classico e tardo vengono analizzati all’interno delle coordinate religiose e politiche dei popoli antichi, con speciale riferimento alla civiltà romana. Non le forme svuotate di una luminosa cultura per cui si struggeva il romanticismo tedesco, non le divinità come “esseri belli di un mondo di fiaba” secondo la lezione schilleriana o le trepidazioni di Hölderlin, per cui Apollo e Dioniso erano solo gli dei del sole e del vino, cioè riflessi delle potenze di natura, o i volti di un eroismo sublime, in ogni caso frammenti statuari e vestigia del tempo cui destinare un interesse antiquario e letterario. Qui il sacro e i suoi rappresentanti tornano a veicolare un universo valoriale significante, colmo del proprio respiro, inquadrato in un cammino di fondazione e sacralizzazione degli itinerari alpini.


Si tratta della incomparabile forza creativa del pensiero religioso antico, che Walter Friedrich Otto riferiva in particolare ai greci nel mirabile argomentare della sua Theophania. In generale lo spazio gelido e innevato delle vette è percepito come entità più appartenente al cielo che alla terra. Alla montagna era perciò legato un sentimento spirituale del tutto caratteristico e persistente nel tempo, insinuandosi anche in epoche nelle quali simili paure ancestrali non avevano più motivo apparente di esistere. Il civis romano ha trionfato lungamente, spingendosi ai confini del mondo, perché ha seguitato a rispettare il senso del sacro in natura. Le direttrici appenniniche e alpestri così ricche di testimonianze cultuali confermano questa devozione e quanto l’inquietudine per la traversata di luoghi impervi riguardi indistintamente ogni classe sociale, compresi i funzionari di più alto livello da cui ci si sarebbe aspettati un atteggiamento più razionale e distaccato. A un graduale processo di statalizzazione e legalizzazione delle zone vallive, che avevano un’importanza strategica nella rete viaria dell’impero, continuava pertanto ad affiancarsi, anche a un livello politico-istituzionale, l’esigenza di una protezione sacra dai pericoli degli ambienti montani: insidie che potevano essere naturali o legate all’ostilità di chi abitava o a sua volta transitava in questi spazi. Un simile intreccio di interessi fu ben vistoso lungo la via ad Gallias: Augusto costituì dalla statio di ad Quintum (a Collegno, nelle vicinanze di Torino) al Mons Matrona, nell’arco di alcune decine di miglia cruciali per l’economia dell’intero pedemonte, un sistema di strutture sacrali, al cui interno ognuno poteva esprimere la propria pietas nei confronti della divinità che più aveva cara. Capolavoro di intelligenza politica e strumento nodale per la romanizzazione fra tarda repubblica e primo impero, lo straordinario processo di ordinamento amministrativo e sacrale delle vie di valico può dirsi una delle avventure più affascinanti e longeve dell’antichità, dove ataviche usanze e credenze s’incontrano con il bisogno di gettare ponti, di spingersi al di là, di offrire all’immaginazione, allo stupore e alla poesia un cammino nel mondo.    

Berg und Gebirge als poetisches Motiv bei Claudian

Libri e divinazioni da Finale Ligure a Vienna

Il fatto che molti luoghi nel ponente ligure trasmettano piuttosto intensamente la sensazione di una longeva e stratificata storia culturale, è qualcosa che posso testimoniare di persona e che segna in modo significativo l’incontro con queste realtà. Aggiungerei che l’idea di una simile densità emotiva lambisce il visitatore con sorprendente immediatezza e deriva a mio avviso da una singolare alleanza che qui si sperimenta fra realtà e surrealtà; si ha come l’impressione di toccare con mano qualche eco risalente da chissà quale lontananza. Mi spingo anche ad affermare che pagine luminose e fondamentali di molta poesia novecentesca non possono essere comprese se non si è trascorso del tempo proprio in simili località. È un tema a me caro e che ho portato all’attenzione in alcuni miei scritti. Non solo il più spesso citato Eugenio Montale, ma penso anche alla cosiddetta scuola di cantautori genovesi (la poesia-canzone), o a Paul Valéry. Sarà che sua madre Fanny Grassi era italiana, figlia del console italiano Giulio Grassi, originario di Genova, sarà l’influsso biologico e il legame affettivo ad aver contribuito alla sensibilità del poeta francese: è innegabile che certe sue immagini siano semplicemente e maestosamente liguri. I versi del Cimitero marino non si sarebbero depositati in me con altrettanta limpidezza, se non mi fossi fermata a Sanremo e non ne avessi visitato le intime e antiche sepolture a due passi dal litorale. E penso pure alla luce di Bordighera e ai suoi stessi sepolcri, quasi un monumentale giardino pensile ancora italiano ma per certi versi anche già francese.

Sezione dei tarocchi alla mostra
Calvino cantafavole, Genova, Palazzo Ducale
15 ottobre 2023 – 7 aprile 2024

Dunque, si va per immergersi nelle bellezze paesaggistiche e si scoprono personalità ingegnose che hanno animato e fatto la fortuna di molti abitati. Tornando a certi percorsi finalesi, occasione che di recente mi è stata offerta durante un mio passaggio alla mostra di Genova, Calvino cantafavole, ho avuto modo di recuperare la poesia di un cosmo sfaccettato e affascinante, venendo a conoscenza di aspetti di cui poco o nulla sapevo. Leggere infatti che proprio a Finale Ligure è nata la prima versione a stampa dei tarocchi, le carte del “gioco della vita” che tanta parte degli immaginari letterari hanno influenzato compreso quello calviniano, mi ha stimolata ad approfondire ulteriormente glorie e splendori del borgo. Del resto, la notizia del primato editoriale in una simile impresa non può lasciare indifferenti. Tanto da apparirmi come una sorta di crocevia universale, quasi che il gioco e la divinazione legati all’uso di queste singolarissime carte dipinte, fossero una metafora di tutte le arti e, in conseguenza, di tutte le possibili eccentricità riunite a tali latitudini. Ciò che ho scoperto non ha smentito la mia prima impressione.

Pannello esplicativo affisso nella sala dei tarocchi alla mostra Calvino cantafavole, Genova, Palazzo Ducale
15 ottobre 2023 – 7 aprile 2024.
Nell’ambito delle celebrazioni del centenario dello scrittore sanremese

Si è svelato un ritratto di cosmopoliti, bibliofili, esoteristi e astronomi che in una non ben precisata epoca installarono un primo rudimentale osservatorio sulle alture dell’entroterra. Un sito che dall’altopiano delle Manie al mare offre vedute spettacolari affiancate a un patrimonio artistico dal quale si evince una continuità territoriale rilevante in termini di presenze e memorabilia. Basti pensare che alcune grotte sovrastanti l’insediamento pare fossero occupate fin dal paleolitico.
In età moderna, fra i notabili e possidenti locali, salta agli occhi la vicenda di Alfonso II Del Carretto, marchese di Finale, dove nacque nel 1525 per poi morire a Vienna nel 1583. La singolarità dell’uomo non sta solo nell’aver saldato un pezzo di storia ligure su quella mitteleuropea, legandosi in particolare alla capitale asburgica cui riservò trasferte sempre più frequenti fino all’espatrio e alla richiesta d’aiuto presso l’imperatore a causa delle minacce subite dal suo potentato. Ma il personaggio è ancor più degno di nota per essere stato l’artefice di un’avventura sapienziale di grande rilievo, ossia la raccolta di un cospicuo fondo manoscritto che servì ad istituire una ricca e sorprendente biblioteca. Il progetto infatti è il riflesso degli orientamenti, dei gusti e delle intenzioni di un uomo consapevole dell’incertezza della propria condizione di semi-esule e quindi esule, che credeva di rimpatriare ma senza esserne sicuro. Ciò che comunque lo ha ispirato in tutte le sue acquisizioni è stata l’idea di raccogliere una documentazione d’uso per la famiglia e ancor più per il marchesato. In sostanza, un disegno lungimirante che aspirava a caratterizzarsi come opera pubblica. Lo studio filologico della nota che raccoglie gli acquisti librari del marchese, fonte preziosa del dipanarsi della sua attività, si deve ad Anna Giulia Cavagna; una recensione molto dettagliata di questa ricerca, che aiuta a comprenderne metodi e contenuti, è liberamente consultabile in rete.

Antiquariato a Finalborgo

Vengo infine all’osservatorio astronomico finalese. Fra le alture montagnose dell’immediato intorno paesano la ricognizione archeologica del bric di Pinarella (o Pianarella) davanti al già nominato altopiano delle Manie ha rivelato segreti straordinari che ci portano assai indietro nei secoli. Sebbene molte siano le difficoltà nella lettura di un’area così, dove il terreno carsico e l’azione fortemente dilavante della pioggia rendono ben ardue le ricostruzioni dei contesti, si è tuttavia riusciti ad avanzare delle ipotesi con qualche punto fermo. Complesso cerimoniale, sepolcrale nonché osservatorio astronomico fin dalla notte dei tempi lo studio del posizionamento delle pietre in situ ci parla di un luogo sacro, frequentato e riconosciuto come tale nel plurimillenario avvicendarsi della vita umana da queste parti.

Studio di archeoastronomia sul Bric di Pinarella (o Pianarella)

Tanto per non farsi mancare nulla Finale vanta anche un museo diffuso e un paio di anni fa è stata al centro di un’interessante iniziativa, volta a riscoprire la cultura dei tarocchi insieme all’associazione faentina “Le Tarot”, che ha collaborato alla realizzazione di una mostra ideata appositamente per valorizzare il borgo antico.

Le Manie da Finale Ligure
Plenilunio d’agosto a Finale Ligure

Fotografie di Claudia Ciardi ©


Bibliografia e documenti per approfondire:

CODEBÒ M., DE SANTIS H., PESCE G. 2011, L’osservatorio in
pietra di Bric Pianarella (SV)
, in “Astronomia culturale in Italia”,
Società Italiana di Archeoastronomia, Milano, pp. 177–185.
Stone Observatory/Academia.edu

Altre notizie riguardanti il sito di Pianarella qui: Due passi nel mistero. Studi e ricerche

Sulla mostra di Finalborgo dedicata alla storia dei tarocchi si veda l’articolo di Exibart: Tarocchi. Gioco, divinazione e magia (Oratorio dei Disciplinati, 2022)

Recensione della ricerca di Anna Giulia Cavagna_La biblioteca di Alfonso II Del Carretto marchese di Finale. Libri tra Vienna e la Liguria nel XVI secolo_Finale Ligure / Centro Storico del Finale, 2012

La Pietra del Finale e il museo diffuso

Quasi un catasterismo

Hannsjörg Voth, architetto e artista tedesco pioniere della land art.
Formatosi alla Scuola d’Arte Statale di Brema all’inizio degli anni Sessanta, ha poi intrapreso l’attività di grafico pubblicista a Monaco di Baviera a partire dal 1968. Contemporaneamente ha iniziato a lavorare come pittore e disegnatore freelance, affermandosi sempre di più dagli anni Settanta in avanti.
Qui un bozzetto dell’opera Goldene Spirale [Spirale aurea].


Per me febbraio significa i ricordi d’infanzia legati ai paesaggi invernali della Versilia con il corso mascherato. Le Alpi Apuane già si amalgamavano al mio sguardo nei limpidi pomeriggi assolati; io non ne avevo ancora consapevolezza ma assiduamente, silenziosamente quella poesia preparava in me le sue strade.
La rotta che poi, per i casi della vita, ho potuto percorrere fra la costa tirrenica e le Alpi piemontesi ha rinnovato l’incantesimo. La chiarezza dei profili alpini innevati è uno spettacolo di rara maestosità che dentro di me, in questo periodo dell’anno specialmente, ravviva molteplici stagioni del prima e dell’ora. Mentre nel mondo accade l’indicibile questa dimensione di trasognato nitore è un dono che brilla di luce propria.
Torino mi scuote, poi mi raccoglie e assolve decine di volte al giorno. E io la amo anche per questo, perché è il caposaldo della mia rotta. Se la città non si è spezzata, soprattutto in questi ultimi anni, è anche per la sua solidarietà silenziosa, per i suoi mercati che conservano un’autenticità affabile, popolare, per una gentilezza ostinata che si manifesta senza chiacchiere, senza belletto ma che sa quando intervenire, quando far breccia.
Il sole del tardo pomeriggio alla Tesoriera che si insinua fra le ultime tracce di neve ai bordi del prato, le Alpi che s’innalzano ovunque come fondale e corona, le vetrate a colori nei lunghi corridoi di palazzi che trasmettono l’intimità di tutti quelli che da almeno tre secoli a questa parte ci hanno abitato, sono per me una proiezione del lungo viaggio dell’infanzia, dalle montagne di fronte al mio mare a qui.

Avevo lungamente rimandato la lettura della conclusione di un libro. Mancavano poche pagine ma finito il mio isolamento lo riposi, non curandomene più. Il racconto aveva assolto il suo compito di tenermi compagnia nel silenzio e nella stanchezza del mondo. Risvegliata da quella condizione, mentre imparavo ad aggirarmi in una solitudine nuova imposta dalla convalescenza collettiva, il bisogno di sapere come “andasse a finire” divenne secondario, poi del tutto indifferente. Però quelle righe in sospeso, sconfessate proprio quando erano sul punto di rivelarsi, mi riaffioravano di tanto in tanto come un rimprovero. Arrivavo perfino a pensare che qualcosa non fosse andato per il verso perché mi ero sottratta a un monito. Come un capitolo che non si è voluto chiudere né affrontare per timore degli esiti. E siccome già altre volte nella vita ho provato in prima persona che un evento non è completamente aggirabile, che se pure ci illudiamo di averlo eluso, resta ai bordi del nostro sentire come un’esistenza non pacificata, è fatale ritrovarlo. Può anche darsi, quando ci si ripresenta sulla strada, che non abbia un volto amichevole ma venga con pretese accompagnate a modi sommari, per vendicarsi della trascuratezza che gli abbiamo destinato.
Quanto alla mia negligenza letteraria, accampavo scuse. Che le condizioni per cui mi ero avvicinata a quel libro non sussistevano più, quindi anche la chiusa diventava blanda, inefficace il suo messaggio. L’averla ignorata non era insubordinazione ma asciutta conseguenza di qualcosa che era venuto meno, che aveva smarrito la propria voce. Allora perché continuare a pensarci? Infine un giorno, non so dire il motivo, ho deciso comunque di saldare il mio debito. Sono tornata a quelle pagine ammutolite, ferme a un pomeriggio di due anni prima. E ho capito. La fine del libro, letta allora, semplicemente mi sarebbe scivolata addosso senza parlarmi. Affinché la parola si esprimesse davvero, altro avrei dovuto vivere per quella durata esatta in cui il seme interrato nelle pagine si fosse aperto una via verso la superficie dove avevo continuato a respirare. Così seppi che l’ultima immagine di quella storia era legata alla costellazione della Freccia che tuttavia mancava il bersaglio, risparmiando il Cigno. Sentii sciogliersi un nodo. Lo percepii come il mio stesso catasterismo.

Che ci saremmo incontrati e non incontrati, e in questo andare paralleli saremmo stati tanto vicini quasi da toccarci, perfino compenetrati a momenti, lo ha scritto qualcuno per noi. L’esserci riconosciuti in quel ritratto ci ha fatto paura né possiamo averne biasimo. Era troppo da spartire. Del resto in quell’oracolo si raccontava in dettaglio anche la nostra fuga. Terrena la tua, nella cadenza dei cieli la mia, continuando a scambiare nei nostri pensieri questi due elementi che non abbiamo osato mischiare.

È la poesia, è la poesia che mi distoglie, per riportarmi inesorabilmente a me stessa. Lo so, lo so. Ancor più per questo sono leale con lei. Perché mi ha sempre detto e predetto tutto quello che sarebbe stato e non stato. E considero la sua infallibile forza a cui mi affido, il più limpido retaggio.

Alpi
Fotografie di Claudia Ciardi ©

Le relazioni magiche

Storie di precognizioni, magia, sensismo e spiritismo che si insinuano fino agli Venti del Novecento e oltre, con tanto di processi alle streghe. Nell’Inghilterra della seconda guerra mondiale, mentre il paese era scosso da emergenze ben più pressanti, andò in scena l’ultima accusa di stregoneria a carico di una medium, tale Helen Duncan. Non si vedeva una cosa del genere dal lontano 1727, tanto che perfino Winston Churchill si sentì in dovere di intervenire, liquidando l’intera faccenda come «una sciocchezza obsoleta».

Il procedimento a carico della Duncan fu un caso eclatante di quello che potremmo definire un clima di sospetto, senz’altro esacerbato dai disagi e dalle paure causati dagli eventi bellici, che comportò il ristabilirsi di reazioni credute sepolte da tempo. Clamorosamente, in questo caso, il pubblicò proseguì a sostenere la donna. Mentre in passato le cosiddette streghe erano per lo più oggetto di stigma e isolamento da parte della comunità, con il risvolto violento degli interrogatori e delle esecuzioni – complice anche il terrore seminato dalle autorità inquisitrici – qui assistiamo a un atteggiamento contrario. Anche dopo la condanna, questa eccentrica figura in possesso di facoltà medianiche inspiegabili agli occhi degli esperti incaricati di studiarle, continuò a riscuotere attestazioni di stima e vicinanza. A differenza di altri casi coevi in cui la scoperta di tentativi di truffa e raggiri di varia entità decretò la fine della fortuna dello spiritista di turno, la Duncan a guerra conclusa proseguì la sua attività senza aver smarrito è il caso di dire “la magia” con il suo auditorio. Il popolo ha un incomprensibile istinto per certi fenomeni? Sì, e spesso infatti finisce per lasciarsi trarre in inganno. Ci sono moltissime testimonianze di conclamata ciarlataneria, proprio nel periodo che si inaugura con la seconda metà dell’Ottocento, quando questo genere di pratiche raggiunse il culmine della popolarità. Due fatti storici ne determinarono un’affermazione tanto vasta, almeno nel mondo occidentale. La guerra civile americana e successivamente la prima guerra mondiale che, mentre seminava il suo velenoso epilogo, attraverso l’epidemia di influenza spagnola, rinfocolò un interesse per gli “esperti” del dialogo con i defunti che si credeva ormai al tramonto. In altre parole, le profonde crisi che scossero a più riprese la società statunitense e quelle del vecchio continente, provocarono il diffondersi di un’ampia fiducia nei poteri paranormali e nei suoi praticanti. Ne ho parlato anche nel mio libro su Thomas Mann, protagonista d’eccezione di un ciclo di sedute spiritiche a Monaco di Baviera, nella Germania di fine 1922 e inizio 1923 alle prese con gli effetti di una galoppante inflazione.

Un esempio di fotografia spiritica che si ingegnava di catturare i fantasmi sulla pellicola. // Fonte: National Geographic

La molla che più ha fatto scattare l’impulso a partecipare a queste attività era la promessa di poter tornare a parlare con un parente morto in guerra. Il francese Allan Kardec ideò una teoria dello spiritismo incentrata sulla reincarnazione, espressa nel suo volume Il libro degli spiriti, dato alle stampe nel 1857. L’opera ebbe larga diffusione, incontrando un vasto favore di pubblico anche al di fuori dell’Europa, in particolare in Sudamerica e Russia.

Il tema dell’evocazione degli spiriti e del comunicare con l’aldilà – anche nota come negromanzia – ha del resto origini antiche. Sanzionata e bollata dai culti ufficiali, in particolare quelli monoteisti della tradizione giudaico-cristiana, di diffondere aspetti oscuri e pericolosi nella collettività, l’Antico Testamento ne fa esplicito divieto. Che l’uomo in ogni epoca abbia espresso sotto varie forme il bisogno di essere confortato e confermato nella sua presenza terrena, e lo abbia fatto cercando una comunicazione sensoriale extra terrena o aliena (in senso etimologico e parapsichico), è un fenomeno che fa parte della sua lunga avventura come essere pensante.
Nei suoi Dialoghi delfici, Plutarco ci ricorda un mondo perduto fatto di anime vaticinanti e sensibilità oracolari incalzate dai nuovi corsi storici.

«C’è una storia, caro Terenzio Prisco, in cui si narra che delle aquile, oppure dei cigni, partiti dai limiti estremi della terra e diretti al suo centro, si ritrovarono nello stesso posto, a Pito, dov’è il cosiddetto “ombelico”. In seguito, Epimenide di Festo volle chiedere ragione di questo racconto al dio, ma non ottenne che un responso ambiguo e incomprensibile. Allora, si dice, esclamò:

Né della terra esiste un centro, né del mare; e se esiste, è noto agli dèi, ma celato agli uomini.

A buon diritto il dio aveva respinto la sua domanda, poiché egli pretendeva di esaminare la bontà di un’antica tradizione toccandola col dito, come si fa coi dipinti».

Plutarco, 1 409E, Il tramonto degli oracoli in Dialoghi delfici, introduzione di Dario Del Corno, Adelphi edizioni, Milano 1983 [ristampe].

E non potrebbero dirsi, secoli dopo, i dialoghi leopardiani incastonati nelle sue Operette morali vergate fra il 1824 e il 1832, meditazioni dell’umano troppo umano alla ricerca di un pretesto, di una leva per trascendersi e sottrarsi alle false promesse di un progresso definito a sproposito? Giacomo Leopardi, che fu un incompreso nella sua epoca, almeno fra la stragrande maggioranza della gente a lui coeva, nella schiera di una intellettualità che si consegnava con entusiasmo alle miracolistiche aspettative delle magnifiche sorti e progressive, è il testimone di una filosofia poetica della crisi, di un’inquietudine dubitante che l’essere umano non dovrebbe mai disconoscere. È su un altro fronte una sorta di oracolista in un mondo che non segue più alcuna voce profetizzante, tranne quella della tecnica – il nuovo oracolo che a tutto avrebbe rimediato.

Per concludere, dai poeti fraintesi torniamo ai nostri sensitivi perseguitati. Senza dubbio si trattò in molti casi di persone che al fine di sbarcare il lunario o per balzare velocemente agli onori della cronaca si inventarono questo bizzarro mestiere, arrogandosi poteri paranormali. Di fatto praticamente tutte queste figure, prima o poi, incapparono in qualche guaio con la giustizia. Nel migliore dei casi furono tenute d’occhio. Sarà forse, lo ripeto, al di là del controllo esercitato dallo Stato “normalizzatore”, che questo atteggiamento riflette anche un’attitudine tutta moderna di sanzionare la sensibilità? Di ravvisare sospetti in chiunque mostrasse atteggiamenti non contemplati dalle regole – esplicite o implicite – normalizzanti emozioni, reazioni, modi d’espressione codificati dalle società scese dalle culle post rivoluzionarie? La Duncan andò a processo perché non si riuscì a spiegare come avesse potuto detenere delle informazioni riservate, cui non erano al corrente neppure i vertici dell’intelligence, segreti militari rivelati nel corso delle sue sedute, quando chiamava a sé gli spiriti. Sospettata di spionaggio – ma la verità è che ci si trovava veramente a fronteggiare qualcosa di misterioso – subì una sorta di carcerazione preventiva. Si stava preparando lo sbarco in Normandia e nulla poteva essere lasciato al caso; neppure che una medium particolarmente abile spifferasse in pubblico per bocca delle anime morte qualche dettaglio dell’operazione.

Molti sono gli atteggiamenti, ad oggi, che tendono a isolare certe persone ritenute forse ipersensibili o poco comprese. Si direbbero odierni meccanismi censori, tentazioni di un ritorno alla caccia alle streghe, riflettenti la brutalità dei pregiudizi e delle azioni del passato.

Una divertentissima foto delle “streghe di Norfolk”, documento di un’usanza davvero singolare nell’Inghilterra degli anni Venti. // Dalla pagina fb curata da “Le Signore dell’Arte”.

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Guardare la Gorgone

Angelo Tonelli, Negli abissi luminosi. Sciamanesimo, trance ed estasi nella Grecia antica, Feltrinelli, Milano 2021