Poeta di nuvole e montagne, a novant’anni il fotografo Michele Pellegrino offre i suoi cieli al grande pubblico raccogliendoli in un emozionante catalogo e ricevendo un’attesa e decisiva consacrazione internazionale con la sua personale ospitata da Camera di Torino a febbraio di quest’anno. Lode alla transitorietà, al fluire di tutte le cose nella corrente del tempo ciclico della natura. Un aruspice del contemporaneo che osserva e afferra l’immediatezza, l’attimo in cui si leva il vento e l’aria vibra per un cambio di luce. Del resto, cosa c’è di più rapido e mutevole di una nuvola? Eppure la fotografia è immanenza, crea una curvatura dello spazio-tempo, proietta un incantesimo paradossale su una cosa finita, proprio perché rappresentata (o nonostante ciò), inducendola a una perpetua traslazione del presente. Se l’aoristo è in greco il tempo indefinito per eccellenza, l’espressione della compiutezza di un atto senza che sia collocato con precisione in un quando o un dove, questa galleria di Pellegrino parla secondo le forme antiche, si coniuga come accadimento puro, apoteosi dell’essere in sé, svincolato, staccato dalla linearità consecutiva, dal costrutto seriale. Un paradigma intraducibile anche dopo essersi fissato in uno scatto.
Si direbbe il volto sibillino delle nuvole questo essere illimitato, mai identico a se stesso, che si trascende di continuo fra realtà e ineffabile. La Sibilla, dea non dea, di una sensibilità più che umana, estrema, che rasenta il disordine emotivo, è una creatura centrale e al contempo marginale della religione antica. Le sue facoltà divinatorie si perdono «ne le foglie levi», ha un’indole sfuggente, ombrosa e non a caso predilige l’ombra per raccogliersi e ascoltare la voce che la ispira. Le foto dei cieli in montagna di Pellegrino rimandano ai presagi umbratili e assorti degli oracoli antichi. La sua è in qualche modo una storia d’incontri fortuiti, di apparizioni, immaginazioni, conversioni in senso pagano, cristiano e letterariamente personale. La ricerca del proprio respiro nel respiro della terra attraverso la creazione d’immagini, la riscrittura di una genesi di cui l’uomo sembra aver smarrito il senso. Un’epica vegetale e montanina, di erba, acqua e greti solitari e cime screziate come vascelli fantasma, la cui sparuta umanità si limita a quella agreste, china nei campi o intenta ai lavori artigiani di borgata o nei chiostri monasteriali. Ma nell’ultimo volume dei cieli mancano anche questi pochi. Si lavora per sottrazione, l’umano è assente e tuttavia presente, evocato nei controluce del paesaggio, nella ruota dei giorni al cui movimento assiste e che inesorabilmente lo trascina con sé. Un poema dal valore iniziatico, una rappresentazione taoista del fluire di tutti gli elementi nell’unicità irripetibile dei luoghi e delle testimonianze che li abitano. Di questa pittura-scrittura attraverso la luce ci parlano con accenti altrettanto evocativi Daniele Regis e Walter Guadagnini. Arte, poesia, musicalità della creazione; un’opera multifocale e multisensoriale.
Nella sua approfondita prefazione che alterna i toni del resoconto biografico all’analisi tecnica, un sapiente e scorrevole saggio senza inflessione manualistica, in virtù anche dei molti intarsi in cui si ascolta la voce diretta del fotografo, così interviene Regis: «Le montagne, la natura, l’epica della natura nelle immagini incarnate, sembrano dunque l’ultimo orizzonte di Pellegrino che annuncia quello problematico della storia del mondo: “Il rapporto dell’uomo con la natura nelle sue varie forme non è semplicemente un’enunciazione dell’uomo su di sé […] bensì della natura su di sé”. Forse, in questa chiave il progetto dell’uomo che ritorna in una natura delle origini, nei nudi, si inscrive nello svelarsi, nelle immagini della natura, di un nuovo uomo, in un antico mondo che abbiamo perduto. Questo aspetto della visione naturale wordswortiana, che era anche di Constable come in Ruskin, in Pellegrino non sempre emerge nella critica; prevale a volte il tono del realismo, diretto, asciutto, autentico, puro, senza trucchi e a volte aspro […]». Daniele Regis può dirsi uno degli interpreti più acuti e preparati di questi cicli fotografici, per designazione dello stesso Pellegrino, nonché fra i maggiori esponenti della scuola piemontese. Gli stili contigui, i sincretismi, la vicinanza di sensibilità, la condivisione degli ambienti frequentati hanno creato una longeva intesa di linguaggi fra il ricercatore, architetto paesaggista, e il maestro, portando a una proficua collaborazione a prova di anni.
Accanto ai padri spirituali, si trovano dunque i padri putativi della fotografia e poi vi è il cenacolo degli amici-colleghi di una vita, i propri paesani, gli stampatori, chi ha scambiato generosamente contatti, inviti, esperienze.
Siamo senz’altro in presenza di un volume cardinale nel percorso fotografico di un grande autore piemontese, un tomo altamente consigliato a chi desidera comprendere la bellezza specifica di un territorio, il Piemonte, che diviene anche una landa metafisica, allegoria di conservazione che sollecita la tutela, che sprigiona una poetica in difesa della fragilità. È stato un onore visitare la mostra torinese alla sua inaugurazione, lo è ancora di più vedere citati qui i miei lavori sul mito, con particolare riferimento alle figure delle Erinni-Eumenidi e delle Sibille, nell’ambito di una riflessione sul “sacro femminile”. Trascorsi alcuni mesi da quell’evento, rinnovo il mio invito a cercare i cataloghi di Michele Pellegrino e a seguire le rassegne dedicate alla sua opera.
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