Amo le domeniche paesane, le voci della valle, i racconti che benedicono la montagna, le strade aromatiche cosparse di menta, la fioritura del mirto che incorona chi si ama, la luce radente che disegna i tronchi degli ulivi, la morbidezza dei prati. Amo questi muri sgretolati, i loro sassi, il pietrisco dei secoli. E il verde nuovo dei castagni sui crinali a offrire un’altra stagione, un’altra vita giù in noi e fin dentro tutte le radici della terra.
La levità del giorno, la limpidezza del segno, il chiaro annunciarsi delle cose allo sguardo che liberamente su di loro si posi. Lasciar correre la mano, seguire l’ombra, eternare l’attimo. Essere in tutto, far che tutto affluisca ancora alleviando la sete, muoversi all’unisono, divenire fiume e vento, bagnarsi nella corrente. È assecondando la rivelazione che amore sboccia sugli altari.
Questa liturgia soltanto conta.
«Un attimo azzurro non è più che anima».
Ma si potrebbe forse anche dire così: «Un attimo azzurro è soltanto anima».
È un verso sconfinato, come del resto l’intera poesia che lo contiene, un’immagine che sembra non volersi risolvere definitivamente in nessuna resa.
Taccuini giapponesi
La pietra e il sogno
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