Patrimonio culturale, patrimonio umano

Roma_Palazzo Altemps_Medusa Ludovisi_ o Erinni dormiente_Schlafende Erinnye (sleeping Erinys)

Preservare, tramandare, studiare il patrimonio culturale non può essere cosa disgiunta dall’attenzione verso il patrimonio umano. Fin troppo spesso nel nostro ragionare, infatti, tendiamo a percepire la cultura come qualcosa di separato, un prodotto slegato e, per così dire, senza filiazione alcuna dalle attività umane. È evidente l’enormità di questo controsenso. La cultura è creatività storicizzata, diventata cioè patrimonio storico. Tale processo, ossia l’assunzione del suo portato nel tempo, implica certo una presa di distanza ma ciò non deve significare disconoscimento delle fonti, negazione di chi vi presiede. È un fatto che la tensione creativa sia una caratteristica propria degli esseri umani, forse perfino la più spiccata, e come tale non possa considerarsi una semplice manifestazione di ciò che ha prodotto, al di là di coloro nei quali l’idea è nata. Sarebbe questa, lo ripetiamo, un’astrazione priva di fondamento.

Ho appena letto un’interessante riflessione condivisa sui social: «What makes humans different than other living beings? I think that it’s our amazing way of expressing ourselves through art. [Cosa distingue gli esseri umani dalle altre forme viventi? Io credo il nostro sorprendente modo di esprimere noi stessi attraverso l’arte]».

È pur vero che, al contrario, la creatività si pone a un grado non storicizzato, dunque non è detto che generi cultura. Ma ne è in ogni caso l’indispensabile premessa e medium. E inoltre, il suo centro propulsore risiede in larga parte nell’esperienza emotiva, forse ben più che nella sfera cognitiva. Il grado emozionale è quello che permette di creare e comprendere, anche aggirando eventuali lacune conoscitive. L’intelligenza ispirata dagli aspetti sensibili aiuta quindi la regolazione delle nostre emozioni, consentendo decisioni più affinate e pensieri più chiari prima di agire. La Conferenza dell’Unesco sull’educazione artistica che si è svolta a Lisbona nel 2006 ha lanciato l’allarme circa il divario crescente fra i processi cognitivi ed emotivi «che conduce ad un maggiore focus, nei contesti di apprendimento, sullo sviluppo delle competenze cognitive rispetto al valore riconosciuto alla sfera emotiva. Questa enfasi sugli aspetti cognitivi, a discapito della sfera emotiva, è causa del declino morale della società. Il processo emotivo è parte del decision making e agisce come vettore di azioni e di idee, favorendo la riflessione e il giudizio. Un senso morale profondo, che si pone alle radici della cittadinanza, richiede il coinvolgimento emotivo. L’educazione artistica incoraggiando lo sviluppo emotivo, può promuovere un equilibrio migliore tra lo sviluppo cognitivo ed emotivo, e dunque supportare la costruzione di una cultura di pace».

Dal post pubblicato sul profilo linkedin di Chris D. Connors sull’intelligenza emotiva

Mi è già capitato di accennare al fatto che qualsiasi siano i mezzi di cui disponiamo, l’incontro con un’opera d’arte produrrà comunque uno scambio, anche se non siamo completamente edotti sul suo autore e sulle circostanze storiche dalle quali è scaturita – a corollario di ciò non va dimenticato il grado di acquisizione culturale dell’individuo in una data epoca; tranne periodi che possono essere classificati come di “regresso”, si può affermare che la storia umana tende a un innalzamento del proprio livello di cognizione. Gli strumenti su cui contiamo oggi possono risultare dispersivi o causare perdita di concentrazione ma anche offrirci canali per comunicare e assimilare delle nozioni velocemente. Ciò è innegabile e contribuisce alla formazione individuale, pur lo ripetiamo con alcuni limiti e contraddizioni. Nell’esperienza di quel che abbiamo intorno, nella sua lettura, non è un dato trascurabile.

Dunque, vediamo come l’interesse per il patrimonio culturale sia strettamente intrecciato alle vicende del cosiddetto patrimonio umano, alla sfera della sensibilità e a un impulso creativo che nella comunità deputata alla fruizione e conservazione trova il suo inderogabile compendio. Con la ratifica della Convenzione di Faro da parte dell’Italia nel 2020 si è inteso per l’appunto ufficializzare il ruolo nello sviluppo umano rivestito dal patrimonio culturale (nelle sue ulteriori declinazioni di patrimonio naturale e intangibile, ossia legato alla comunità sociale incaricata della sua valorizzazione). Per sviluppo s’intende l’elevarsi della qualità di vita e il diritto garantito all’accesso al patrimonio.

Molte delle riflessioni fatte sin qui sono raccolte in due interessanti capitoli del Dossier pubblicato dal Centro di Ateneo per i diritti umani (Università di Padova) a cura di Desirée Campagna.

Per concludere sui temi della tutela e dell’educazione. Proprio in questi giorni sta tornando alla ribalta la questione etica delle collezioni museali laddove risultino acquisite in conseguenza di saccheggi durante la guerra o nel periodo coloniale. Ci si interroga su quando e come restituire e si stanno producendo mostre che vogliono sensibilizzare il pubblico su tali problemi. Anche in un simile caso si toccano ambiti che non sono strettamente legati agli oggetti del patrimonio ma coinvolgono la storia di una comunità, i suoi valori e tradizioni di riferimento, gli ordinamenti su cui si fonda.

Learn about diversity_Da un articolo collettivo su Linkedin a cui ho partecipato_in evidenza il parallelo fra patrimonio culturale e patrimonio umano

L’arte scuote punti nodali nell’ambito del diritto e gli artisti assurgono a human rights defenders, trasmettitori di quell’immaginazione necessaria ai cambiamenti della società.

Immersioni nel centro Italia (Cortona, Foiano, Foligno)

Per la mia pausa estiva quest’anno ho privilegiato gli itinerari del centro Italia dalla Valdichiana alla provincia di Foligno. L’estremità della Toscana interna e l’Umbria con il doppio anniversario di Signorelli e Perugino, cui vanno aggiunti i percorsi per l’anno robbiano, si sono posti come fulcro di iniziative di grande spessore, tuttora in corso. È stata l’occasione per tornare a esplorare, a passo lento, spazi e tracciati culturali che non sembrano esaurirsi in una sola visita. Anzi, sono proprio queste iniziative a creare i presupposti e incentivare un avvicinamento ai luoghi più responsabile, obbligando a soste che possano dirsi veramente tali. Come già ho avuto modo di dire, nell’incontro con un’opera d’arte, come con qualcuno del resto – perché si tratta di sensibilità affatto dissimili – il dove avvenga non è un fattore secondario. Aver visto Crivelli per la prima volta proprio nelle sue amate terre adottive marchigiane si è rivelata dal mio punto di vista un’esperienza di vera contemplazione, per così dire; certamente diversa se la prima scoperta fosse avvenuta altrove. Che poi si abbia una conoscenza pregressa e un legame intellettivo, mentale, con un artista è altra cosa ancora. Ma l’incontro, lo ripeto, lo stare in piedi davanti a un suo lavoro, che poi è stare secoli dopo davanti alle mani che lì hanno lavorato, sentire perfino quella carnalità dell’autore, incide profondamente sul tipo di consapevolezza che sviluppiamo. Il che attiene anche e soprattutto, lo dico di nuovo, alla nostra emotività. Conseguentemente è chiaro che non vi sia un modo unico e univoco di fruire la cultura. Chi dichiara che si passa in fretta davanti ai nostri capolavori senza capire nulla, enuncia una verità solo parziale. Sulla fretta, ha ragione in pieno – d’altronde se non si danno strumenti anche economici alle persone per fermarsi di più sarà difficile invertire questa tendenza. Sull’incoscienza starei attento, perché il rischio è divulgare una visione elitaria che inficia le reali possibilità di apertura e condivisione del nostro patrimonio. Ci sono gradi diversi di conoscere e sentire. Se anche sono totalmente a digiuno riguardo la storia di un capolavoro, il poterlo incontrare e soffermarmi lì nei pressi, mi innalzerà comunque. Ne ho parlato in uno dei miei ultimi saggi pubblicati sulla rivista «Erba d’Arno», in cui sono tornata a esplorare un tema che ho molto a cuore e che definisco “la taumaturgia dell’arte”. Tornerò quindi a rifletterci descrivendo il rito collettivo che si è tenuto in Piazza dei Miracoli il 9 agosto scorso, per il via alle celebrazioni della Torre pendente. Questo evento è stato infatti una summa di quanto espresso fin qui, di tutte le mie ricerche e convinzioni maturate finora, una grande lezione antropologica di cosa significhi l’accesso simultaneo gratuito e in piena libertà a monumenti e musei. Per inciso ci tengo a ribadire che in 180 km, la distanza da Pisa ad Arezzo, per coloro che su questa rotta hanno navigato in una settimana di pieno agosto, è andato in scena uno spettacolo incomparabile. Un’immersione nella bellezza che io credo non abbia avuto eguali al mondo.

Valga come ulteriore annotazione, a conferma, la piccolissima ma straordinaria mostra dedicata a luglio a Margarito d’Arezzo e le aperture in notturna del Cassero e del relativo polo museale a Castiglion fiorentino. Gioielli, come gioelli sono talune esposizioni minimali o minimaliste che anche adesso si stanno tenendo in tutta la penisola e che forse ci fanno scoprire una dimensione differente, più raccolta, meno dispersiva da cui avvicinare e sentire l’arte (a titolo d’esempio si rimanda a Bernini protagonista a Cellatica in Franciacorta fino al 29 ottobre).

Bottega di Luca Signorelli _MAEC – Cortona

Epicentri di storia e fascino mai tramontato. Le terre etrusche che spaziano dalla costa tirrenica alla Maremma primitiva fino in Valdichiana, per restare in area toscana, sono capaci di sprigionare intatta la loro profonda essenza. La mostra di Signorelli a Cortona è il punctum originis per risalire all’incredibile carriera di questo maestro. Oltre alle due sale in cui sono allestite opere provenienti anche dall’estero, insieme alla minuziosa e interessante ricostruzione della Pala di Matelica, il tutto introdotto da un documentario che aiuta ad abbracciare le coordinate spazio-temporali di una fastosa epoca della pittura dove ben si evidenzia pure il ruolo chiave di Foiano, si fanno largo i capolavori del MAEC che ospita, fra gli altri, diversi quadri della cosiddetta “bottega di Signorelli”. Nonché la tappa al diocesano e la chiesa di San Domenico, banco di prova delle abilità dello stesso Signorelli (la pala della Madonna col bambino), di Beato Angelico (L’Annunciazione) e Niccolò di Martino con il suo polittico.

Niccolò di Martino – Polittico
Chiesa di San Domenico, Cortona

A Foiano si è già accennato. Questo affascinante paese dei silenzi, distante una quarantina di minuti da Arezzo, dalle vorticose strutture in cotto che che hanno il loro cardine nella spettacolare Collegiata, è la quinta di una mostra diffusa dedicata alla maestria dei della Robbia. Un’idea ben concepita, in linea peraltro con le tendenze che vanno affermandosi sulla necessità di diversificare e decentrare i flussi turistici. E nell’aretino ciò ha i suoi effetti, perché siamo in territori dove fortunatamente le ripercussioni più deleterie dell’assalto non si vedono. Non in ultima analisi il motivo sta nei costi: queste valli non sono affatto per tutti e il mordi e fuggi, date le distanze e le poche infrastrutture, impraticabile; il che in tal caso non è un discorso dai risvolti elitari ma di semplice sopravvivenza e conservazione.

Percorsi robbiani a Foiano della Chiana
Madonna della cintola

Il progetto e le iniziative dell’anno robbiano

Infine la provincia folignate, questa sconosciuta propaggine dell’Umbria profonda. Si esce dal territorio di Cortona, seguendo la direttrice del Trasimeno e si avanza di un bel pezzo oltre Perugia. Il centro storico di Foligno è qualcosa di fuori dal tempo, una scheggia uscita dalla fucina dei Titani fra rugose colline che sembrano onde immobilizzate da un incantesimo. Il museo diocesano è semplicemente uno scrigno con alcune sculture lignee policrome di scuola locale che lasciano a bocca a aperta. Devo dire che questa piacevole esperienza mi si è poi protratta a Firenze. È stato come chiudersi una porta alle spalle per riaprirla settimane dopo sulla medesima stanza. All’inizio del percorso del Bargello, appena ho messo i piedi nella prima sala, mi si è presentata una Madonna dipinta che tanto mi ha ricordato quella osservata per una mezz’ora buona a Foligno. E infatti anche questa è di scuola umbra (umilmente oserei dire di maestranze folignati).

Madonna in trono col bambino
Scultura policroma in legno di noce
inizi del XIII secolo
Museo diocesano di Foligno
Madonna con bambino
Legno dipinto_Scultore umbro_1300-1310
Museo del Bargello_Firenze

Le “relazioni meravigliose” in cui mi sono imbattuta quest’anno, in non pochi casi alla Mrs. Magoo, cioè come l’alter ego femminile di quel signore che cammina sopra il vuoto senza cadere né provare paura dal momento che non se ne accorge, mi hanno fatto sentire fortunata. Era davvero impensabile, è davvero impensabile eppure accade; non lo cerco e accade. Stando ad Antonio Machado “el camino se hace caminando”, e io posso dire di aver camminato molto. Per il resto, alla vita di una persona, al fiorire della sua personalità, si devono dare le condizioni, non è qualcosa di già fatto e già scritto ma è questione di opportunità, di intenzioni e sguardi che si schiudono su ciascuno di noi. Mentre si finisce, oggi particolarmente, per considerare gli esseri umani come già fatti. Pur essendo questo un palese controsenso, perché si è dentro un collettivo, un organismo che ha necessità di svilupparsi nelle sue diverse estensioni. Ad ogni modo quello che io ho schiuso da sola, almeno per questa parte, mi dice della bontà di tutto quanto finora mi si è offerto.  

* Fotografie di Claudia Ciardi ©

Marius Ernest Sabino – Tanagra e art déco

La scarsità di notizie biografiche e bibliografiche, in italiano specialmente, su Marius Ernest Sabino (1878-1961), che come il cognome fa intendere proprio origini italiane aveva, mi lascia piuttosto sorpresa. Sono giunta sulle sue tracce per l’interesse in me suscitato dalle statuette di Tanagra. A dire il vero non immaginavo di incrociare un così raffinato maestro del vetro, che fra gli anni Venti e Trenta ha espanso i commerci delle sue creazioni fino al Medio Oriente.

Il cosiddetto “modello Tanagra”, riconducibile alla foggia delle piccole statue greche di terracotta rinvenute nell’omonimo demo ellenico, influenzò molto velocemente l’immaginario artistico occidentale. Quest’anno mi è capitato di scriverne in più occasioni, e la scoperta dei lavori di Sabino non è che una piacevole conferma di un radicamento che ha centro soprattutto a Parigi. Il Louvre, infatti, con lungimirante intuizione, a differenza dell’Italia, comprese subito il rilievo della scoperta accaparrandosi un buon numero di originali greci.

In quanto artigiano del vetro e designer, Sabino può dirsi un interprete assai particolare  dell’immaginario antico da lui fatto rivivere in opere sognanti e lievissime. Complici le trasparenze dettate dalla scelta del materiale – per lo più vetro – insieme alla ricerca degli effetti cromatici, tutti a tinte tenui (azzurro e giallo con esiti verde acqua e, quando il caso, ricercati effetti opacizzanti). Non solo Tanagra, ma anche manufatti che sembrano richiamare idoli e amuleti egizi, presenze cristalline e diafane che sovrappongono le suggestioni arcaiche o classiche alle cesellature dell’art nouveau e dell’art déco.  

Figure in vetro fra cui soggetti egiziani, Venere di Milo, due piccole Veneri di Milo, Madonna (figura che chiude a sinistra la serie di tre in primo piano)

Imprenditore e artista il suo lavoro ha influenzato l’arte vetraria moderna. Fra le due guerre, la sua tecnica del vetro modellato a compressione fu una delle migliori messe a punto in quel periodo. Insignito di numerosi premi e riconoscimenti in Europa, ottenne anche la massima onorificenza francese, la Legion d’Onore, per il suo contributo all’arte e all’industria.

Originario di Acireale in Sicilia, approdò in Francia all’età di quattro anni. A Parigi studiò scultura del legno, seguendo le orme del padre. Successivamente seguì i corsi all’École Nationale des Arts Decoratifs et de Beaux Arts di Parigi. Affascinato dalla diffusione dell’elettricità, sostituì i suoi primi modelli di lampadari lignei con pezzi in cui il vetro divenne l’elemento principale di propagazione della luce.
Nel 1925 brevettò una sua formula chimica (a base di arsenico!) per il vetro opalescente. Il risultato è che in condizioni di scarsa illuminazione il vetro appare spesso bianco o bluastro come il ghiaccio di un ghiacciaio. Molti pezzi assumono un sottile colore dorato di un’inusuale brillantezza, quasi una magia.

Tanagra – Donna con veli (Dal catalogo di Sabino del 1930-1931)

Dal 1914 lavorò con un vetraio di Romilly-sur-Andelle, aprendo quindi dopo la guerra una bottega-laboratorio in proprio a Noisy-le-Sec con grandi magazzini nel quartiere del Marais a Parigi.

Il 1925, anno del celebre brevetto, fu pure il più fruttuoso per lui, presenziando all’Esposizione Internazionale di Arti Decorative di Parigi.

Il successo dei suoi lampadari coincide con il movimento dell’architettura dell’epoca incentrata sull’elemento luminoso, tanto che Sabino fu anche richiesto per creare l’illuminazione decorativa per i transatlantici. Aprì nuovi punti vendita ad Algeri, Orano, Tunisi e Costantinopoli. Nel 1935, la sua celebrità lo portò a ricevere l’incarico di creare tutte le lampade e i lampadari elettrici per il palazzo dello Scià di Persia.

L’idolo – Scultura in vetro montata su lampada

Durante la seconda guerra mondiale i tedeschi fecero chiudere i suoi stabilimenti e negozi. Con la ripresa del dopoguerra affidò le sue attività e i modelli creati alle mani dei propri direttori commerciali, non potendo più seguire direttamente il lavoro a causa di una malattia. La vita, anche quella che riesce a schiudersi e realizzarsi al meglio e con soddisfazione, è fatta di apici. Quello di Sabino si era evidentemente celebrato prima della grande deflagrazione degli anni Quaranta. Tuttavia l’impresa da lui fondata andò avanti per qualche tempo attraverso i curatori designati dopo la sua morte, dal 1961 fino al 1975. Il suo delicato mondo creativo, nutrito di estetiche colte e gentili, ci sorprende ancora oggi come una fortunata apparizione.

Le quattro ballerine (1927)

Raro vaso in corno sfaccettato appoggiato su un tacco; la decorazione del titolo è in rilievo e scomposta su ogni lato. Prova in vetro opalescente stampato. Senza segno. Altezza 24,5 cm

Si rimanda anche ai seguenti articoli:

Le signore di Tanagra

L’arte e l’archetipo

Sacri cammini in Valle Pesio



Mentre ci si interroga sugli impatti dei flussi turistici, laddove i costi in salita e gli affollamenti – che in buona parte determinano un aumento ingiustificato dei costi – rendono difficile perfino organizzare viaggi di prossimità – il libro sulla Certosa di Pesio è quasi un’apparizione e viene a offrirsi come rifugio. Le vie aperte da Michele Pellegrino mi sono care perché inneggiano a lembi di terra risparmiata e inducono l’osservatore alla sosta, a una auspicabile resa contemplativa. Niente più lotta, niente affanni, ma un invito a coltivare e salvare zone franche di raccoglimento. Un poema sacro della natura e del tempo che si fa tempio, nella celebrazione che qui avviene di un luogo di culto, centro spirituale, dimora di millenarie ritualità e arca di storie.

Annuncio con molto piacere la citazione di uno dei miei ultimi saggi, uscito su «Erba d’Arno», dove ho sviluppato alcune riflessioni sui caratteri dell’immaginario, il potere dell’immaginazione e le modalità di fruizione dell’opera d’arte. Trovarmi idealmente a fianco di Giorgio Bertone, il cui volume Lo sguardo escluso è stato una lettura segnante del mio passaggio liceale e direi ancor più delle mie successive esplorazioni, viene a porsi di nuovo come sigillo. Dico di nuovo in quanto questi corsi e ricorsi della mia vita hanno scandito ogni avvicinamento, ogni collaborazione, ogni osmosi con le traiettorie piemontesi. È sempre riaffiorato qualcosa, un tema, un interesse, una voce che quasi non credevo di ritrovare; anzi il loro inaspettato apparire, in un contesto diverso, me li ha resi ancor più vividi e se vogliamo significanti, anche in rapporto al passato.


Si tratta inoltre di aver accostato, per così dire, le mappe delle certose fra Toscana e Piemonte. Ne fu già protagonista il tomo sugli studi schelliniani nel quale, da un inedito d’archivio, davo notizia di un foglio che mostrava l’interesse dell’architetto doglianese per questi luoghi dell’anima, mettendo in luce un appunto sulla Certosa di Calci. Sempre per quella magnifica e sorprendente continuità di energie creative e bellezza che ho appena evidenziato e che da anni mi conduce, una mia poesia su questo prodigioso complesso che abbraccia arte e architettura nel cuore dei Monti Pisani, Il cortile delle rose, ha ora ricevuto le attenzioni del Premio Gorgone d’oro XXIII.

Genius loci, potenza dell’immaginazione si diceva, qualità iniziatica del luogo che veglia i nostri passi. Le manifestazioni creative sono il frutto di questo nutrimento materno, di una madre che avvicina il figlio al seno, di un paesaggio in cui la fantasia trova sponda. Mappe sentimentali per una sentimentalità radicata e al contempo chiamata a trascendersi: «Quell’attesa di vita non ancora sbozzata dalla materia dei sogni».

Con la fotografia di Michele Pellegrino ho una lunga frequentazione dalle prime visite alle sue mostre a Cuneo e Torino, un battesimo ormai risalente ad alcuni anni fa. Pure in questo caso il consolidarsi di un mio rapporto e apporto in altri scenari culturali, è stato accompagnato dallo schiudersi accanto a me di atmosfere che sentivo all’unisono, fisicamente attraversate, quindi rielaborate davanti alle opere degli artisti che via via ho scoperto. I muri a secco, la limpidezza dei torrenti, cieli di nubi turrite, manti di neve che disegnano un incantesimo e replicano nient’altro che sillabe arcaiche a chi li interroga, le maestose ipnotiche cime delle Alpi del mare, i lunghi e quieti corridoi delle dimore storiche o degli edifici sacri che innalzano l’essere umano alla fede. E poi ancora sfogliando certi cataloghi. Su tutti cito, sempre di Pellegrino, la poetica di Alta Langa. L’altra collina, per me vera e propria iniziazione ai paesaggi e allo spirito delle Langhe. Desidero quindi ricordare il canto alla natura e all’arte di Prima che il tempo finisca, opera voluta dalla Fondazione CRC e pubblicata l’anno scorso da Mondadori Electa. Una riflessione potente quanto attuale sull’importanza di preservare l’irripetibile dono della natura. Adesso questo volume per gli ottocentocinquant’anni dalla fondazione della Certosa di Pesio viene a rinsaldare quell’intendimento, in un felice connubio fra la scrittura evocativa di Daniele Regis, architettura in parole, letteratura che si fa luogo e spazio, e i sentieri incisi nell’ombra, nel sole e nel vento dalle lenti fatate di Michele Pellegrino.



L’arte e l’archetipo


Gotico e montagne

Un tempo di natura prima che il tempo finisca


L’arte e l’archetipo

Tanagra in Toscana

Archetipo, forma primitiva, radice, matrice, primo volto. Creare è attingere al momento originale, chinarsi alla fonte dell’immaginario collettivo e berne le larve che vi affiorano. Dell’evocazione di questa delicatissima corrente, una sorta di flusso che compenetra chi si appresta all’opera e che si è soliti definire genericamente ispirazione, ho tentato una lettura in alcune mie pagine di recente pubblicazione.

La parola, derivante dal greco ἀρχέτυπον, assume in italiano quattro significati diversi che coprono altrettanti ambiti disciplinari: tecnico-artistico (da notare come la parola greca τέχνη congiunga le due sfere cognitive), filosofico, psicologico, filologico.

Così ci si riferisce al primo esemplare, il modello di un’opera cui altre simili e successive si orienteranno. Quindi nella filosofia, d’indirizzo platonico in particolare, il concetto di idee archetipiche rimanda all’essenza delle cose sensibili. In ambito psicologico, secondo le teorie di C. G. Jung (1875-1961), l’archetipo è l’immagine primordiale contenuta nell’inconscio collettivo, la quale sussume tutte le esperienze dell’umanità e della vita animale che l’ha preceduta, alimentando gli elementi simbolici delle favole, delle leggende e dei sogni. Infine, in filologia, si è soliti definire archetipo il manoscritto non noto ma ricostruibile con maggiore o minor sicurezza attraverso il confronto dei manoscritti pervenuti, da cui questi deriverebbero secondo i rapporti di dipendenza configurati nello stemma codicum, o albero genealogico. Ad esempio, non possediamo l’originale della Divina Commedia di Dante Alighieri – uno dei più clamorosi archetipi mancanti, rovello e passione per molti studiosi – ma talvolta la vicenda familiare dei codici pone in evidenza che l’archetipo stesso sia una chimera. Ossia nella genesi di un testo pare siano entrati in circolazione, fin dall’inizio, esemplari paralleli che rendono vana la ricerca di un solo capostipite.
Tale declinazione filologica è d’uso anche nell’archeologia e nella storia dell’arte: si dirà, statua che riproduce l’archetipo di Lisippo.

Il mio articolo per «Erba d’Arno» (quaderni 171-172), rivista pubblicata con il contributo della CR Firenze, indaga i nessi fra queste discipline, esplorando in che modo le arti e le diverse sfumature linguistiche di archetipo influiscano sia sulle realizzazioni creative sia sui meccanismi di fruizione delle opere stesse.

Accenniamo anche brevemente alla cosiddetta contaminazione fra le arti, come nel caso della poesia, della pittura e scultura. I rapporti e le influenze linguistiche fra Dante e Giotto, quindi i componimenti in versi di Michelangelo Buonarroti che hanno ispirato generazioni di artisti italiani e stranieri, fino all’età moderna, tra cui ad esempio gli espressionisti tedeschi.

«L’entusiasmo che si accompagna a certi ritrovamenti, a scoperte fortuite che all’improvviso ci riconsegnano fra le mani reperti millenari, è innescato da cotali suggestioni. La lontananza che si rifà vicinanza, l’idea di un destino comune che percorre l’umanità, la storia che s’incarna in un segno tangibile spingono l’onda emotiva che abbiamo visto in tante analoghe circostanze. Pensiamo a Tanagra o più recentemente a San Casciano dei Bagni o ancora ai nuovi ritratti del Fayum, affiorati dall’oasi alla fine di quest’anno, trascorso più di un secolo dall’ultima fortunata campagna.  Idoli del sacro e del profano, una quotidianità estatica che sopraggiunge a scrutarci, dee-madri che allattano, giocano coi loro bambini, impugnano il fuso, tessitrici che imitano il gesto delle Parche». (Claudia Ciardi, L’arte e l’archetipo. Specchio di vita immortale, giugno 2023).

https://www.tumblr.com/claudiaciardiautrice

Pistoia, una defilata città – solo in apparenza – ma da sempre spazio in fermento e fucina di molte iniziative. Capoluogo toscano meno frequentato dal turismo, crocevia affascinante di creatività e culture (da «Erba d’Arno» quaderni 171-172, rubrica “Editoria pistoiese”, pp. 132-133).


Calligrammi, una personale esplorazione nella mia scrittura del legame fra linguaggio verbale e figurativo. La riproposta sul mio profilo tumblr della prosa In ogni filo d’erba, omaggio ai borghi liguri, alla mia permanenza sanremese e a Giorgio de Chirico. Grazie a chi continua ad apprezzare questo testo (e a farmelo sapere!).

Bergamo è un fiore

Ai piedi delle Orobie, città di architetture e atmosfere insolite, incorniciata da bellezze naturali con in dote un patrimonio culturale di rilievo, ai più forse poco noto. La parte vecchia dell’agglomerato, se si ha la fortuna d’incontrarla di sera, risalendo lungo i tortuosi muri che scortano verso l’alto, tra il silenzio e il profumo delle fioriture, sprigiona un fascino davvero singolare.

Verso la Città Alta, salendo lungo le antiche mura

In questo momento si stanno tenendo tantissime iniziative per vivere al meglio i percorsi urbani e sperimentare la vocazione artistica del luogo. Bergamo è infatti capitale italiana della cultura per il 2023. Molte le installazioni e i programmi che vanno dai festival musicali alle mostre, fino alla scoperta dei numerosi ecosistemi cittadini – ad esempio con la sentieristica dell’orto botanico, vero e proprio giardino pensile che sovrasta le mura veneziane.

Questa del paesaggio fiorito è forse la più spiccata delle caratteristiche offerte da Bergamo nella stagione calda. Roseti dappertutto. Una città letteralmente incoronata di rose. Una propensione ‘botticelliana’ e non a caso il maestro del Rinascimento si affaccia dalle sale dell’Accademia Carrara, sfaccettato gioiello dove sono raccolti capolavori assoluti. Un ambiente davvero suggestivo. Gustare la prossimità delle prealpi, percepirne la presenza, mentre ci si immerge fra i quadri del Quattrocento toscano, e poi Carlo Crivelli, Sofonisba Anguissola – unica rappresentanza femminile – Giovanni Bellini, Lorenzo Lotto, Andrea Mantegna, Giovanni Battista Tiepolo, Francesco Hayez.

Benozzo Gozzoli, Madonna con bambino e angeli (Madonna dell’Umiltà), 1440-1445
Vicino da Ferrara, Angelo che piange, 1465-1470


Voracità espressiva dell’allattamento
1. Bergognone (Ambrogio da Fossano), Madonna che allatta il bambino, 1492-1495 circa. * Il capezzolo enorme di questa Madonna-contadina a cui il bambino si attacca con vorace appagamento suggerisce una spiritualità davvero terrena, carnale, incarnata. Esempio stupendo della presenza piemontese nel Quattrocento lombardo.
2. Giovanni Antonio Boltraffio, Madonna che allatta il bambino, 1508 circa.

Carlo Crivelli, Madonna col bambino, 1482.

*Il quadro esposto alla mostra di Palazzo Buonaccorsi a Macerata quest’inverno. Ritrovarlo qui è stato rivedermi nell’istante in cui l’ho osservato nelle Marche. E questa del vedere più volte un’opera che ci innamora in luoghi diversi è quasi una trasmigrazione spirituale. Per me uno stato che mi fa ricordare esattamente com’ero, cosa ho detto, chi era accanto a me quando l’ho visto altrove.
In tale circostanza si è anche rinnovata la sorprendente continuità con cui quest’anno, ad ogni mostra che ho visitato dopo Macerata, mi è sempre venuto incontro un Crivelli.


Un Francesco Hayez sfolgorante, che sta sempre e ovunque molto bene...

Francesco Hayez, Caterina Cornaro riceve l’annuncio della sua deposizione dal Regno di Cipro, 1842 (dettaglio)


Nelle sale ho pure avuto il piacere d’incrociare l’ex direttrice di Capodimonte che mi ha raccontato fatti d’interesse sia della Carrarese che delle collezioni napoletane. Se questa non si chiama fortuna.

Fiori che trionfano anche in un bellissimo allestimento all’entrata dell’Accademia stessa, a precedere il percorso di visita. Una galleria che racchiude schegge floreali, come un abbraccio fra città, immaginario che è qui sedimentato e bellezze custodite.

Rosa fresca aulentissima

Nella mia permanenza mi è quasi sembrato di onorare un rito apuleiano. E infatti Apuleio si è poi materializzato sotto una delle porte cittadine nell’aspetto di una bizzarra opera contemporanea. Un ‘disco epigrafico’ che ha subito richiamato la mia curiosità. Me incredula!

* Fotografie di Claudia Ciardi ©

Si ama un luogo come si ama qualcuno

Sono convinta che quando una persona si è legata a un luogo, quando il suo destino l’ha portata a scrivere alcune pagine della propria vita in quello spazio, a partecipare emotivamente delle sorti di altre esistenze che lì si sono avvicendate, questo filo resti ben teso dove poi continua a camminare, ovunque i suoi passi procedano.

Michele Jamiolkowski, dall’Ucraina, dove era nato nel 1931 a Stryj (allora Unione Sovietica), è stato deportato da ragazzino e sopravvissuto ad Auschwitz. Mentre il padre, prigioniero insieme a lui, restò ucciso nel 1943, la madre poté miracolosamente riabbracciarlo a Cracovia a guerra finita. Una vita straordinaria e all’insegna del riscatto. Lo scampato pericolo della morte e il dolore si sono aperti a una carriera importante, ricca di soddisfazioni, consolidata al Politecnico di Torino, dove è stato professore di geotecnica dal 1969 al 2006. La sua maggiore impresa è stata l’aver stabilizzato la Torre di Pisa, riducendone la pendenza. Un lavoro meticoloso, complesso, con momenti di crisi acuta che hanno fatto pensare all’impossibilità di portare in fondo il progetto di messa in sicurezza. Coordinando un’ampia squadra di studiosi e maestranze – e di nuovo l’Opera del Duomo è stata cantiere vivo, partecipato, aperto al mondo – ha ridato vita, lui che ha avuto la sua stessa vita restituita, a uno dei monumenti più conosciuti al mondo. Undici anni (1990-2001) di preziose cure, ricerche, mani pazienti che hanno visitato, accarezzato, tastato i sussulti di questo antico corpo di marmo.

Stando ai rapporti annuali del gruppo di sorveglianza della Torre, creato nel 2001 subito dopo la riapertura, la cura Jamiolkowsky fruttifica ancora a distanza di molto tempo dall’intervento. La Torre recupera due arcosecondi all’anno, frazioni di millimetro. Sola e maestosa, spinge verso nord, opponendo la sua fiera lotta contro la gravità che dal 9 agosto 1173 (l’anno delle fondazioni) la attrae verso sud.

Così stamattina Salvatore Settis ha fatto divulgare il suo riconoscente saluto:


Lo scrittore ebreo tedesco Rudolf Borchardt, innamorato di Pisa, disse che solo in questa città il gotico aveva potuto acquistare tanta potenza drammatica, perché qui soltanto l’onda gotica si era rovesciata sull’ostacolo di un “grande stile” architettonico e figurativo già compiutamente espresso: solo da un simile urto poté nascere il dramma poeticissimo, l’incontro e lo scontro fra la classica «bellezza del sempre» e il gotico «amore del mai».

Jamiolkowski è morto il 15 giugno 2023, poche ore prima di una delle più importanti ricorrenze per la città. I festeggiamenti patronali che comportano l’allestimento di una suggestiva luminaria, ben nota anche all’estero. Così questi lumi in tale ricorrenza sono stati anche un po’ lucerne.

L’ora blu, guardando le luci verso il Museo San Matteo di Pisa, 16 giugno 2023

Una storia che ha unito la profonda tradizione politecnica torinese a uno dei più prodigiosi siti dell’arte mondiale. Grazie, Michal, caro, caro, caro. Ti sia lieve la terra.

* Fotografie di Claudia Ciardi ©

Cultura diffusa – Alla scoperta del Piemonte

È di questi giorni il meritatissimo riconoscimento dei Musei Reali di Torino come polo culturale di primo livello, equiparato a Uffizi, Colosseo e Reggia di Caserta. In una regione di straordinarie bellezze naturali, che si accompagnano a un vastissimo e affascinante patrimonio artistico, dove il turismo si è fatto largo con meno clamore (e meno travisamenti), siamo di fronte a una dichiarazione di estremo rilievo.

Non si sa perché, il Piemonte è stato da sempre considerato forse meno attrattivo, almeno in certe frettolose narrazioni pubblicistiche. Sconta diciamo la sua indole un po’ burbera e dimessa. Non è un territorio che si rivela al primo passaggio né si concede agli sguardi superficiali. E ciò, a mio avviso, costituisce un punto di grande forza.

Questa indole la si comprende molto bene in un confronto fra la montagna piemontese e quella trentina. Al di là dei caratteri regionali diversi, che hanno comportato scelte e orientamenti in molti casi opposti, il Trentino è per larga parte un’affascinante e ordinatissima cartolina. Entrare di sera in Val di Fassa con la luce radente che accende le Dolomiti sullo sfondo è qualcosa che ti resta per la vita. La differenza che rilevo non riguarda dunque il paesaggio, suggestivo nei due luoghi, ma i caratteri degli abitati che si sono voluti conservare o a cui si è deciso di rinunciare. In Trentino trovo magari una sola baita con le vecchie travature nel centro di un paese, un miracolo risparmiato dalla foga della ristrutturazione, attorniato da alberghi moderni con servizi al top che però finiscono col togliermi qualcosa dell’intimità del posto. Mentre in quei pochi metri fra i muri cadenti e il legno disfatto amo passare più tempo che altrove, proprio perché lì finalmente il luogo mi parla.

Quando si arriva in alcune borgate del Piemonte, capita di metter piede in un ambiente fermo nel tempo, talora di rifugi cadenti – anche spopolati, e questo può essere pure un problema o forse no – ma ancora si osserva un ambiente alpino con i suoi caratteri di un secolo fa. E non è una montagna facile da capire, perché non ci sono canoni prestabiliti, riferimenti esatti e già noti. È la bellezza difficile di cui parlava Sciascia, quella che non si offre in modo scontato. Una bellezza tacita, che ti cade davanti improvvisa e coglie impreparati.

Nel marzo di quest’anno la Fondazione CRC, attiva in tanti progetti di altissima qualità per la tutela, lo studio e la fruizione dei beni culturali della provincia di Cuneo e, in generale, della regione, ha festeggiato il suo anniversario. È stata l’occasione per omaggiare figure di spicco che molto si sono spese per portare a conoscenza e comunicare le bellezze piemontesi, oltre l’ambito locale. Così Daniele Regis (Politecnico di Torino) in uno stralcio del discorso commemorativo: «Altri primati ci vengono universalmente riconosciuti (ma dimenticati da tutte le politiche europee sino all’ultimo PNRR) come l’eccellenza del patrimonio artistico, architettonico paesistico, demo-antropologico, agroalimentare, artigianale e naturalmente archivistico. Ai siti Unesco delle residenze Sabaude di Racconigi e Pollenzo e Grinzane, dei paesaggi vitivinicoli di Langhe, Roero e Monferrato, dei siti palafitticoli preistorici alpini, solo per restare alla meravigliosa provincia di Cuneo, per non parlare dei parchi delle Marittime e Gesso, corrisponde la rilevanza di un patrimonio diffuso senza eguali. E non parlo solo dell’architettura, del barocco che aveva sedotto l’americano Millon come Paolo Portoghesi, che ha dedicato le sue energie più belle nel suo indimenticabile libro molto fotografico sulle opere di Vittone nelle campagne piemontesi […] e ricordo la mostra fotografica sul barocco promossa da Viale degli anni Sessanta che aveva avuto 100.000  visitatori – o del neogotico oramai assurto, grazie al progetto CRC, ad assoluta rilevanza internazionale (con la benedizione di A. G. Dixon). […] Ma mi riferisco ancor più al patrimonio diffuso, che Pellegrino ha cantato in tanti libri, della montagna un tempo antropizzata, rimasta  intatta nei suoi abbandoni (e per questo così ricercata dagli stranieri stanchi delle ultra turisticizzate Alpi del nord-est), costruita dalla fatica di generazioni, raccontata in tanti suoi volumi stupendi». (Cuneo, 24 marzo 2023)

Cospicue sono state le progettualità messe in campo anche durante la pandemia. Campagne fotografiche estese, studi archivistici, catalogazioni imponenti, incontri e scambi che hanno tenuto nonostante politiche dissennate di chiusura. Certi atteggiamenti di intolleranza legati agli ultimi anni, aggravati da un serpeggiante dissidio sociale che ha visto scontrarsi proprio nel mondo della cultura persone animate da idee diverse e contrarie all’eccesso dei provvedimenti emergenziali, hanno finito con l’oscurare la genuinità e la bellezza di tante delle iniziative che si sono tratte in quel periodo. Non dimentico alcuni (indecenti) attacchi ad personam oltre al diniego da parte di taluni media di dare notizia di pubblicazioni e nomi di studiosi che avevano preso le distanze dalle politiche governative ispirate da austerità e autoritarismi sanitari. E questi sarebbero stati i ‘valori socialisti’? Comportamenti strumentali per intestarsi meriti valendosi del lavoro altrui, profittando delle condizioni di disagio dei singoli. Una cosa davvero gravissima da chi si dica artista o da chiunque abbia incarichi di ricerca.   

Allora, siamo felici di riprendere le fila di tante cose che ci hanno sostenuto e accomunato in un lasso di tempo difficile. Sui temi salienti di questi nostri studi siamo tornati nel corso delle ultime settimane per una lettura in chiave economica – con le crescenti sfide che ci pone e impone una nuova gestione economica – in un lungo saggio che uscirà a giorni. Abbiamo pertanto parlato di progetti diffusi, non solo in Piemonte ma anche in altre aree d’Italia. E di come il museo, assai più di altre istituzioni, abbia la possibilità e la responsabilità in questo momento storico di definirsi come interprete di dinamiche e tendenze innovatrici che sappiano fare la differenza in termini di modelli educativi e ricadute territoriali.

Benvenuto, Piemonte, dunque! E benvenuta sia una ritrovata capacità dinamica e progettuale che scardini certe ritualità puramente ideologiche e consequenziali impaludamenti del mondo culturale.

Pratonevoso – Artesina

Storica Libreria La Montagna – Via Sacchi – Torino

Celebrazioni del barocco piemontese (2020)

Venaria Reale – Il Parco

* Fotografie di Claudia Ciardi ©

Pendoli e prodigi

Questa riflessione potrebbe intitolarsi pendoli e prodigi. Il pendolo è qualcosa che scandisce il tempo, anzi lo spazio ancor prima del tempo, con identico moto. Ha in sé qualcosa di ossessivo e perfino snervante. Ci fa sentire senza uscita ed è meglio non soffermarcisi troppo. Si rischia l’ipnosi o di restare inchiodati al suo ripetitivo dettato. Il prodigio è qualcosa che irrompe, inatteso, improvviso. Non è detto che faccia rumore. Anzi, spesso ci viene incontro impercettibile. Altre volte sembra quasi metterci alla prova. Saremo davvero in grado di coglierlo o la nostra sensibilità si è nel frattempo persa, soccombente ai ritmi sempre uguali e ossessivi del pendolo che ci svuotano le pupille? No, sentiamo ancora se quell’impercettibile ancora ci parla. E anche il pendolo, forse, diventa meno stringente. La sua cadenza non è più ad infinitum, inafferrabile, senza meta, ma diviene un cenno rituale.

Ero salita a San Pietro in Vincoli e mi aggiravo in una via laterale. A un certo punto si è alzato il vento, sempre il vento, che è spirito, anima, soffio vitale. Cammino nel primo pomeriggio, la luce è cambiata e io vago. Divago. Cadono all’improvviso dei calcinacci da un palazzone antico. I pochi frammenti si disintegrano sulla macchina sottostante, quelli più piccoli mi arrivano sul braccio, per fortuna senza conseguenze. Un turista accanto a me, visibilmente spaventato grida: “What’s happened?”. E io, appena dopo aver compreso: “The wind, the wall”, con una calma inusuale. Mi è sembrato di ripetere il verso di un poema. Quasi parlassi da chissà quale mondo. E non mi sono resa conto che intanto stavo tenendo il braccio fermo nella stessa posizione dell’attimo in cui avevo sentito cadere quei pezzi d’intonaco. Chiamarlo prodigio può suscitare inquietudine. In fin dei conti, diciamo, è andata bene. Oppure, si tratta di un prodigio proprio perché è andata bene. Ma c’è qualcos’altro. Nello spavento di quei secondi, che ho realizzato solo nel momento in cui ho sentito gridare quella frase accanto a me, mentre ho avvertito la mia pelle lambita da quei frammenti di muro, per me è stato come esser toccata, non solo da materia fisica, ma da un pensiero, un intendimento, qualcosa di molto vasto, di sapiente e presente come se fosse sempre lì dove siamo. E questo non può certo dirsi pauroso. Una mia amica asserisce con grande convinzione che si tratta per l’appunto di Wunder, e che vanno presi per quello che sono e bisogna rispettarli.

Io credo in una ritualità che appartiene agli eventi, agli incontri. Non credo alla casualità di questo turista al mio fianco che ha condiviso con me l’esperienza dello spavento e dello stupore. Un’esperienza così intima e frastornante, più intima e profonda di altre che consideriamo tali. Sacre cose che saluto sul mio cammino, perché attutiscono, rallentano il pendolo e, anzi, danno senso, illuminando tutto il resto. Ultimamente ho avuto molti riscontri così, meno rischiosi, ma di pari intensità, un’intensità che per ciascun caso si misura in modo diverso. Ogni volta ci si sente scavati, torniti come materia grezza plasmata da una mano che forse talvolta sembra togliere ma solo per aggiungere, per raggiungere un istante di comprensione, il senso, il vero che ci appartiene, che è per noi riconoscimento nostro e degli altri. Tali cose sono costellazioni, sono parte della bellezza a cui esortavo nelle mie poche frasi d’inizio primavera. Sono infine disvelamento e respiro.

Dunque certi attimi sembrano destinati ad essere più rivelatori di un’intera epoca. Lo ha già espresso qualcuno, se in forma simile o diversa non saprei dire con esattezza. Ci si sente infinitesimi, fibre lievissime che sono parte e non parte di qualcosa di molto più grande. Attraversiamo luoghi come in sogno. Siamo e non siamo. E capita un giorno di entrare in un giardino, di posare lo sguardo su un’erta un po’ arruffata, sulla delicatezza dei fiori. È un miracolo avvistare tanto splendore, soffermarsi sull’idea che la terra spontaneamente ancora ne offra. Proprio questo pensiero tra belle e delicate apparizioni è anzi il perfetto connubio, il vero incantesimo opposto alla bufera. Perché ormai ogni attimo risparmiato a ciò che è crollo e perdita, ogni intensità sottratta alla fuga del tempo, al rigore del pendolo, che altrimenti livella e abbatte e disfa, ha in sé una qualità prodigiosa. Passa un altro giorno e dal cielo scendono grandine e pioggia. Che ne è più della leggerezza e del sogno di quelle rapide ore vissute? Il vento ha frantumato l’intonaco di una facciata, la pioggia ha dilavato le alture. Qualcosa precipita vicino a me, mi tocca e non mi tocca. Lo sbriciolarsi di un muro in un vicolo, la caduta dei cieli. Materia per materia, tanto reale, altrettanto irreale. Davanti o dietro di me a delimitare un istante di verità.

Roma – Fioriture ai Fori Imperiali
Roma – Tra noi e gli antichi
Firenze – Il giardino dell’iris
Firenze – Il giardino dell’iris – panorama

* Fotografie di Claudia Ciardi ©

Una montagna d’arte


Nelle settimane del ritorno dei cosiddetti grandi flussi turistici – sempre ingolfati nelle stesse due, tre mete – mentre prendono il via campagne pubblicistiche che lasciano perplessi, non fosse altro perché corteggiano l’ingorgo e coltivano i soliti stereotipi, in netto contrasto proprio con quel dichiarato spirito di modernità a trazione social alla base di tali sponsorizzazioni, riteniamo ancora più utile incentivare percorsi alternativi. L’Italia si contraddistingue per un ampissimo e variegato patrimonio diffuso. Si può prendere una stradina collinare e imbattersi in decine di cappelle votive, nicchie, antiche sepolture, pievi isolate, resti di bagni termali, pietre che forse un tempo furono sacre. Non è già forse questa un’esperienza d’incontro e contatto con le tracce della nostra cultura, coi segni di una persistente bellezza? Si può stare affacciati a una balaustra in una giornata di vento e guardare l’erba dei prati che si alza e si spiana in un respiro lunghissimo e ritmico come fosse un’onda, lo strumento di un’invisibile orchestra. E in fondo un filare d’alberi, e poi il bosco che s’inerpica al monte, in ogni tono di verde, nel fresco aroma delle fioriture. È il dono del Mugello, contrada d’arte e belle campagne e suggestive viste montane. In questo territorio, locus amoenus vocato alla spiritualità, in cui si sono intrecciate nel tempo energie creative e mecenatismo, hanno avuto i loro natali Giotto di Bondone e Beato Angelico. Rispettivamente, l’uno sul colle di Vespignano, l’altro su quello di Rupecanina. I dintorni di Vespignano, nell’abitato di Vicchio, a quel che si sa fecero anche da cornice all’incontro fra Giotto e il futuro maestro Cimabue che lì era solito rifornirsi di materiali per la sua bottega fiorentina. In tempi più recenti questo dolce paesaggio è stato inoltre rifugio d’amore e poesia per Sibilla Aleramo e Dino Campana. Continuità di immaginazioni, dunque, sogni e sensibilità che nei secoli si sono tesi la mano.

In un siffatto ambiente così denso di richiami non stupisce varcare la soglia di un piccolo museo. Piccolo per dimensioni ma gigantesco per quanto custodisce. Si tratta del Museo di Arte Sacra Beato Angelico a Vicchio. A illustrarmelo è stato un filosofo dell’arte, che si è soffermato anche sulle esperienze di visita di altri viaggiatori, condividendole con me. Una cosa che da antropologa ho trovato molto interessante, cioè leggere le opere calandosi nell’emotività altrui, in chi per primo ha attraversato uno spazio, così da ripercorrere e mischiare le tracce del suo passaggio alle proprie impressioni. Per la seconda volta, poco dopo le mostre romane, si è ripetuto un episodio simile; ovvero mi è capitato di parlare con persone che spontaneamente mi hanno raccontato le loro vicende professionali nell’arte o da grandi appassionati, senza essere storici dell’arte puri, per così dire. Ne ho tratto insegnamenti e chiavi di lettura non scontati che bisognerebbe tenere in maggior considerazione quando si ragiona di attrattività, di innovazione e pubblicistica (per tornare all’argomento d’apertura).

Del resto, la permanenza stessa in un luogo d’arte si nutre di diversi elementi che concorrono a svelarci il suo carattere, contribuendo appunto a farci entrare in relazione con ciò che vediamo a un grado più profondo. Di storia e storie, di identità, incroci, stratificazioni.

Credo che il Museo di Vicchio e la Casa di Giotto, appena fuori paese a due chilometri circa di distanza dal centro, siano due poli da includere necessariamente in qualsiasi progetto di valorizzazione del patrimonio diffuso. Centri e risorse in grado di accendere un interesse, di avvicinare a paesi e paesaggi altrimenti scavalcati dalle rumorose traiettorie di un certo turismo. È quindi auspicabile che siano due presenze fisse, da coinvolgere in modo permanente e capillare in ogni iniziativa dedicata a questi territori o anche di più ampio respiro fra aree e territorialità che intendano unire punti di forza e somiglianze per educare al senso della storia e della bellezza.

In accordo con la direzione non vengono diffuse fotografie delle opere esposte. Qui solo uno scorcio con vista d’insieme dalla sala d’ingresso che include una terracotta invetriata di Andrea della Robbia, una Madonna del latte in terracotta (di anonima manifattura toscana) e sullo sfondo una Madonna con bambino della bottega di Jacopo Chimenti detto L’Empoli. A sinistra, sempre all’entrata, non inclusa in questo scatto, c’è una raffinata Madonna assisa quattrocentesca del cosiddetto maestro della Madonna Straus.
E questo è solo l’inizio del percorso. Buona meraviglia a chi entra!

Per tutte le informazioni relative alla storia e alla collezione si rimanda al sito dedicato:

Museo d’Arte Sacra Beato Angelico – Vicchio – Piccoli Grandi Musei

Primavera e montagne in Mugello


* Fotografie di Claudia Ciardi ©

Tutte le informazioni utili sui relativi siti e canali social
(clicca qui sopra per ingrandire)


Fino al 30 aprile 2023 il Trittico di Nicolas Froment in Bosco ai Frati
per Terre degli Uffizi in Mugello. Mostra promossa e organizzata dall’Unione Montana dei Comuni del Mugello.