Parola e guarigione

Museo delle Genti d’Abruzzo_Pescara

Nel V libro dell’Odissea il naufrago Ulisse vive uno dei momenti più duri del suo viaggio. Crede ormai che la morte sopravvenga senza alcuna possibilità di scampo. È il libro della massima sofferenza fisica e psichica dell’eroe, qui ridotto a corpo sofferente – il poeta indugia sulla pelle scorticata e il sanguinamento a causa dell’urto con gli scogli, ma anche sulla volontà annientata dai pericoli soperchianti. Ormai non crede più in nulla, sospettoso perfino degli dei che vede come creature inaffidabili, interessate solo a realizzare le loro trame, privi di qualsiasi scrupolo specie se ciò comporta il sacrificio dei mortali. Così quando Leucotea, nell’aspetto di un gabbiano, viene a porgergli il velo magico per vincere la tempesta e raggiungere la riva, Ulisse pensa a una minaccia. Solo nell’attimo in cui capisce di non avere più scelta, si decide a seguire il consiglio della dea che lo condurrà all’insperata salvezza.

Il vero snodo narrativo dell’Odissea si gioca in questi versi. L’eroe prostrato e messo a nudo – alla lettera perché raggiungerà la riva dell’isola dei Feaci stremato e senza vesti – ha sanguinato dalla sue ferite, ha toccato il fondo, smarrito il vigore fisico e mentale. Proprio per questo è finalmente pronto a incamminarsi sulla via del ritorno che coincide con la sua guarigione. Ma perché avvenga deve attingere a quel residuo desiderio di riscatto che ancora, pur debolmente, lo scuote.   

È uno dei temi di cui mi sono occupata nella mia raccolta poetica d’esordio, Umana Sibilla, edita da SETART, dove non a caso richiamo alcune immagini salienti tratte dai poemi omerici e l’idea del viaggio, volto alla riunione con qualcuno e al cercare se stessi, come metafora. 

Un filone che da tempo intride la mia esperienza personale e, dunque, la mia teoria letteraria. La parola poetica, a partire dalle sue lontane evocazioni oracolari, è figlia o sorella dei formulari magici, recitati o cantati. È perciò depositaria di un potere manifestante, trasformativo e terapeutico. Ne ho parlato un paio di settimane fa nel corso dell’appuntamento con Costa Edizioni, a Pescara, per il premio assegnato al mio saggio Presentire e curare. I divini doni della poesia, parte di un ciclo di lavori con cui ho inteso analizzare i nessi qui brevemente esposti.

Se dalle ferite può infine scaturire la luce, come più volte ho sentito ripetere nel corso del nostro evento, e se l’arte ha il dono di trascendere il dolore e di agevolare questo processo, forse proprio il linguaggio cadenzato, rammemorante, lirico è uno degli strumenti chiamati a essere più rivelatori in tal senso.

Ogni sillaba pronunciata può divenire terreno di affermazione, spazio guadagnato nel superamento della tempesta, quindi scintilla liberatoria.

Regine in rosso.
Regine di grazia e forza emotiva.
Spose cerimoniali, Sibille, presenze profetiche.

Walking among the blooms in a healing place

Fotografie di Claudia Ciardi ©

Sul potere terapeutico della parola – Cenni al mio percorso saggistico (Tumblr)

Claudia Ciardi, Umana Sibilla, SETART edizioni, aprile 2025

Luoghi e immagini dell’antico

Nella cornice delle iniziative di valorizzazione del patrimonio culturale italiano per il mese di maggio, mentre si preparano gli eventi legati alla notte dei musei, si ripropone una lettura specialistica da considerarsi un prologo significativo per ripercorrere i sentieri delle civiltà che ci hanno preceduti. Si tratta delle Tre variazioni romane sul tema delle origini a firma di Angelo Brelich, da cui ho ricavato alcuni spunti per la mia ricerca sugli immaginari collettivi e i nessi fra simbolo, linguaggio letterario e figurativo.

Dato alle stampe nel 1955 per le Edizioni dell’Ateneo, in collaborazione con “L’Erma di Bretschneider”, affascinante storia d’impresa libraria romana votata ai mondi dell’archeologia e dell’arte, l’emblematico saggio sulla religione agli albori di Roma non è solo una prova della perizia e dell’acume del celebre studioso italo-ungherese ma anche la testimonianza di come la profondità di uno studio possa restituirci un’immagine vitale e relativamente vicina dell’antico. Non perché lo si voglia forzare a parlare con voce attuale ma per le possibilità interpretative che un’analisi non affrettata e aderente ai contesti è in grado di schiuderci. Volgere lo sguardo alle forme culturali e cultuali di un remoto passato non significa considerare involucri vuoti ma estrarre visioni lontane e sfuggenti nella loro sostanza.

Il mito, inteso quale duplicità di azione e parola, è cosa viva come ci ha spiegato in altrettante pagine mirabili Walter Friedrich Otto. «Considerato sotto questo aspetto di azione culturale, il mito riesce comunque più facile ad essere afferrato nel suo giusto senso. […] L’azione culturale è invero l’accadimento divino stesso nel suo perenne ricompimento. […]… il mito come parola, conformemente al significato originario del termine. Che il Divino voglia manifestarsi nella parola, questo è l’evento massimo del mito. E come gli atteggiamenti, le azioni e le creazioni culturali [di cui abbiamo parlato] sono essi stessi mito, così anche il discorso sacro è la manifestazione diretta della figura divina e della sua potenza». (Theophania)

Passando in rassegna il culto prenestino di Fortuna e l’organizzazione calendariale monarchica da Numa a Servio Tullio, cioè vagliando temi storici, antropologici e religiosi su cui le fonti risultano lacunose e gli indizi latitano, Brelich ci dimostra come mettersi su tracce apparentemente labili, se non addirittura immaginando quelle tracce, può svelare approdi obliati, la cui esistenza non si sospettava neppure. Pur nelle cadenze metodologiche stringenti che ne fanno un testo per addetti ai lavori, lo storico si apre dunque a una narrativa ampia, poliedrica che chiama in causa aspetti politici e sacri. Ne esce una sorta di romanzo i cui protagonisti sono luoghi e figure chiave dell’antichità: templi, altari sacrificali, re, dei. Viene allora spontaneo domandarsi cos’abbiano da dirci adesso queste voci, queste personae e i loro sapienti curatori. L’orizzonte culturale e sentimentale che ci mostrano è tutt’altro che superato e riappropriarci di certe sensibilità o almeno tentare di avvicinarle nel nostro tempo dominato dalla fretta, dalle letture superficiali e dalla dimenticanza può senz’altro contribuire a ridefinire una scala di valori in cui offrire alle nostre radici nuovi terreni di crescita.

Mito e trascendenza in H. Broch

L’epica antica accordata alle cadenze della letteratura tedesca del Novecento, passando a volo radente sui picchi monumentali di James Joyce. Questo è per sommi capi il Virgilio di Hermann Broch, destinato a trasformarsi in uno dei più complessi esperimenti sulla parola. Il commiato di un poeta che quasi indugia in una lunga seduta analitica, che è pure un trattato filosofico sul tempo o una partitura musicale che accoglie in sé ritmi disomogenei eppure contigui; dal debordare del flusso di coscienza alle dissolvenze espirate nell’avvicinarsi della fine. Due sponde – non a caso lo spazio è segnato dal ‘nonluogo’ di una traversata per mare – congiunte in un megalitico eternarsi del tutto.

Né mancano le suggestioni derivate dal mondo dell’arte. Di sicuro Arnold Böcklin – Virgilio si avvia ineluttabilmente verso la sua Isola dei morti – e limitrofe correnti simboliste.

Per uno strano contrappasso Broch fu sorpreso dall’onda nazista proprio ad Altausseee, placida stazione turistica dell’Austria che verrà ricordata per le sue miniere colme di capolavori trafugati da zelanti faccendieri su ordine del Führer. Qui lo scrittore sperimentò l’incubo della reclusione, qui la sorte decise che la sua creatività avrebbe trovato una via di fuga. L’arte prigioniera divenne arte liberata. Così accadde anni dopo anche ai quadri e alle statue lì relegati, per fortuna usciti indenni dall’umana follia.

Questo volume offre al lettore italiano due prose finora inedite in cui affiorano i temi salienti della grande narrativa brochiana.

Arte e letteratura in Via del Vento_Pistoia_
fotografia di Claudia Ciardi ©


* Hermann Broch, Il ritorno di Virgilio, cura e traduzione di Claudia Ciardi, Via del Vento edizioni, novembre 2022

* La pubblicazione è depositata nell’archivio del Teatro Stabile di Torino

Inscriptio vastitudinis

La guerra che devasta, la poesia che lenisce

Gli affreschi di Buffalmacco danneggiati dopo il bombardamento del Camposanto di Pisa


Riproposta del saggio ispirato dalla mia lezione pubblica tenuta nel marzo 2011.
Qui disponibile la versione integrale.


La traccia di questo saggio, alla luce dei miei lavori di scrittura nel decennio trascorso, s’impone in tutta la sua chiarezza. E proprio in virtù del cammino intrapreso e delle sue tappe viene a parlarmi con una voce, se possibile, ancor più limpida, rispetto a quando mi apprestai alla sua composizione.

Ora più nitidi sono gli esiti, i temi abbracciati, le inclinazioni letterarie che alla fonte dell’antico per prima si sono abbeverate, il portato delle storie toccate, la cadenza emotiva che ho coltivato e celebrato nel mio viaggio.

Perfino Hugo von Hofmannsthal vi si affaccia, prima soglia varcata allora senza fermarmi e che tanto tempo dopo, in circostanze cambiate, in una me cambiata, mi avrebbe spinta a tornare tra quei suoi frammenti allora solo sfiorati.

E la guerra, il pericolo incombente della deflagrazione, il grido dell’umanità che si vede perduta, lo scempio del Camposanto di Pisa durante la seconda guerra mondiale, le macerie dell’oggi. Ma anche la ferma volontà di non soccombere.

La sensazione di aver seminato e raccolto per sottrarre spazio al deserto, questa sensazione di un tutto che inaspettatamente viene a significare qualcosa laddove fino a poco prima anche un nesso pur minimo sfuggiva, solleva e gratifica. È una lenezza tutta musicale che impedisce di essere travolti e che fa ricordare a se stessi. Perché aver memoria di se stessi è la prima pietra nell’edificio che intenda accogliere l’umano.

* Un estratto pubblicato sul mio blog alla notizia delle distruzioni compiute a Palmira.

* Ricostruzioni (La Triennale di Milano, 2019) 

I restauratori al lavoro per la rinascita