Complessità culturale nella vita liquida

Automazione, informatizzazione e passaggio al digitale – della pubblica amministrazione, dei patrimoni culturali e di moltissimi settori in contatto diretto o ravvicinato con la nostra quotidianità – stanno determinando mutamenti estesi e profondi nei modi di relazionarci, di intendere il lavoro, scisso fra alcune possibilità aperte dalle nuove tecnologie e la perdita di occupazione, e dunque una non aggirabile condizione di incertezza, precarietà economica e conseguente disagio. 
Quando il direttore del Museo egizio di Torino ha di recente prospettato la realtà di un museo gratuito, in molti si sono detti contrari e contrariati. Ma l’atteggiamento di chi sembrava abbracciare chissà quali rivoluzioni in questo stesso settore, per poi mostrarsi fra i più reazionari, ormai non mi sorprende più. La gratuità non deve spaventarci, non va vissuta come un incubo ingovernabile. Semmai bisogna iniziare a ragionare su come intervenire per destinare risorse laddove altre se ne possono liberare; il dono dell’automazione e dell’utilizzo delle intelligenze artificiali – purché sia un uso controllato e indirizzato dall’essere umano – necessita di una governance, che va pensata per tempo, e che ovviamente non potrà non valersi di qualità creative, di fantasia e in buona sostanza d’immaginazione. Temere una deriva di sregolatezza rispondendo con chiusure irrazionali, significa rinunciare a essere interpreti di quanto sta accadendo. Mentre è importante coglierne l’alto potenziale di libertà a un preciso e più saldo livello di responsabilizzazione.
Il cambiamento è già in mezzo a noi, tant’è vero che ne stiamo osservando rovesci e problematiche. Esserne osservatori passivi, vuol dire desistere dal comprenderlo e volgerlo – almeno provarci – in situazioni vantaggiose. Quello che ha affermato il direttore Christian Greco solleva pertanto una questione di enorme attualità, che coinvolge l’impostazione politica, che quindi si riflette su una serie di altri orientamenti e scelte. Una questione strutturale, di metodo, direi. Nei miei articoli ne parlo da diverso tempo e, lo ammetto, anche forse in alcune forme piuttosto immature quando si ragionava sui primi modelli di reddito di cittadinanza o universale. È un argomento irritante per alcuni, lo capisco, ma non è evitabile. L’estrema esasperata condizionalità con cui il lavoro appare e scompare, e aggiungo anche la sensazione che i modelli e i contenuti formativi siano sempre non dico un passo indietro, ma un centinaio, rispetto alla velocità di quel che ci costringe di continuo a ripensarci, non permettono tentennamenti al riguardo.

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Non è un caso, per fare un esempio in linea con queste urgenze, che proprio nell’ambito del dibattito culturale – almeno fra soggetti realmente e autenticamente in campo per trovare soluzioni e un po’ meno preoccupati dagli avanzamenti e riposizionamenti delle proprie carriere – sia molto sentito il tema della riconoscibilità delle professioni artistiche e, più ingenerale, dell’inclusività delle diverse figure operanti a vario titolo in tale settore. E ancora, fra i vari rilievi emersi ad esempio durante la conferenza di “Minicifre 2023” tenuta a Roma lo scorso 6 dicembre, si è ribadita l’importanza di incrementare osservatori aggregati del territorio per leggere, elaborare e armonizzare al meglio i dati della cultura. Trattandosi infatti di un mondo multidimensionale, con molti attori, dove peraltro l’intervento politico relativo ad alcune aree sembra incerto, prima della lettura statistica, ovverosia dei consumi, occorrerebbe tener presente la pratica culturale (o esperienza culturale), cioè il coinvolgimento, il tempo dedicato dal cittadino alla cultura. In concreto, seguendo quanto detto in questa occasione dalla professoressa Annalisa Cicerchia, economista dell’Università di Tor Vergata, più che misurare gli ingressi nei musei, come ci si ostina a fare, sarebbe opportuno misurare il tempo trascorso da una persona in un museo. Dunque tenere in mano il metro della qualità di una visita, che comprende un insieme organico di fattori, non solo l’entrata-uscita da un luogo ma cosa quel luogo è in grado di trasmetterci (e cosa può cambiare dentro di noi) durante e dopo il nostro percorso.
Come correlato si rimanda ai tracciati esperienziali dell’immersività che negli ultimi anni, specialmente nel periodo della pandemia, hanno contribuito e stanno contribuendo alle maggiori e più articolate considerazioni sul comunicarsi dell’arte, sui nodi psicologici della multisensorialità quando incontriamo (e attraversiamo) gli oggetti d’arte.

Minicifre_Roma_6 dicembre 2023

A monte di tutto si pone è chiaro un richiamo all’etica. In sintesi, le pubblicistiche possono aiutare un po’ ma bisogna che poggino su basi solide, su contenuti. Se la pubblicistica arriva a oscurare i contenuti, quando non a calpestarli, è solo un clamore fine a stesso, incomprensibile e controproducente. E uno spreco di denaro pubblico. Con la crisi economica e con i danni aggiuntivi causati da eventi atmosferici aggressivi che impattano su infrastrutture mal costruite, già discutibili e precedentemente discusse, certe propagande e manie di protagonismo meritano un po’ più di una riflessione. In questo scenario liquido, secondo le penetranti letture di Zygmunt Bauman, dove pochi personaggi alla sommità della piramide dimostrano adattabilità, velocità e un impassibile e divino distacco verso chi non ha gli strumenti per navigare e avere successo in queste condizioni – tuttavia non potranno che essere pochi i beneficiari della liquidità, perché come spiega Bauman un simile status genera appunto una struttura piramidale – sperimentiamo in pieno un deficit di rispetto in ogni sfera dell’attività umana. L’insofferenza – o incapacità – al prendere impegno con l’altro, la sensazione di essere sempre spinti via, di non potersi né volersi soffermare su qualcuno o qualcosa mette in crisi ogni minima forma o propensione solidale. Ciò proprio mentre le architetture della coesione sociale – nella forma ultima di questa selettiva piramide – vacillano. Ma che la piramide liquida non poggi su basi ferme è un bene, ed è una fatalità attesa. 

Zygmunt Bauman, Vita liquida, Editori Laterza, Bari 2006
(e ristampe)

Vorrei concludere sottolineando che nel corso di quest’anno – nonostante il carico di pesantezze che certi piramidali prigionieri di vecchi schemi hanno inteso gettarmi addosso – per fortuna ho avuto modo di gestire attività appaganti e parlare e confrontarmi con decine di persone, di età e percorsi professionali assai diversi. Incontrate in viaggio, durante gli eventi culturali cui ho presenziato o in fila da qualche parte. È stata un’esperienza di altissimo valore, direi di grande arricchimento personale. Perché mi sono sempre capitati interlocutori “svincolati”, con idee trasversali e traverse, insomma delle belle menti. Al contrario, devo dire, non si sarebbero avvicinati o non ci sarebbe venuta voglia di parlare. La chimica dei rabdomanti. Tutto ha contribuito agli spunti e agli stimoli che mi hanno avvicinata e per così dire “consacrata” in via definitiva a certi temi che ho sviluppato nei più recenti lavori di scrittura, nelle mie collaborazioni d’arte e in ciò che desidero coltivare nella mia ricerca.

Poesia, amore e pazienza. Sono i principi chiave del prendersi cura. Cura del sé, degli altri e del patrimonio culturale (materiale e immateriale). // Artslife su Linkedin.

Per approfondire:

Fuori rotta. Gli itinerari silenziosi della cultura

Patrimonio culturale, patrimonio umano

Roma_Palazzo Altemps_Medusa Ludovisi_ o Erinni dormiente_Schlafende Erinnye (sleeping Erinys)

Preservare, tramandare, studiare il patrimonio culturale non può essere cosa disgiunta dall’attenzione verso il patrimonio umano. Fin troppo spesso nel nostro ragionare, infatti, tendiamo a percepire la cultura come qualcosa di separato, un prodotto slegato e, per così dire, senza filiazione alcuna dalle attività umane. È evidente l’enormità di questo controsenso. La cultura è creatività storicizzata, diventata cioè patrimonio storico. Tale processo, ossia l’assunzione del suo portato nel tempo, implica certo una presa di distanza ma ciò non deve significare disconoscimento delle fonti, negazione di chi vi presiede. È un fatto che la tensione creativa sia una caratteristica propria degli esseri umani, forse perfino la più spiccata, e come tale non possa considerarsi una semplice manifestazione di ciò che ha prodotto, al di là di coloro nei quali l’idea è nata. Sarebbe questa, lo ripetiamo, un’astrazione priva di fondamento.

Ho appena letto un’interessante riflessione condivisa sui social: «What makes humans different than other living beings? I think that it’s our amazing way of expressing ourselves through art. [Cosa distingue gli esseri umani dalle altre forme viventi? Io credo il nostro sorprendente modo di esprimere noi stessi attraverso l’arte]».

È pur vero che, al contrario, la creatività si pone a un grado non storicizzato, dunque non è detto che generi cultura. Ma ne è in ogni caso l’indispensabile premessa e medium. E inoltre, il suo centro propulsore risiede in larga parte nell’esperienza emotiva, forse ben più che nella sfera cognitiva. Il grado emozionale è quello che permette di creare e comprendere, anche aggirando eventuali lacune conoscitive. L’intelligenza ispirata dagli aspetti sensibili aiuta quindi la regolazione delle nostre emozioni, consentendo decisioni più affinate e pensieri più chiari prima di agire. La Conferenza dell’Unesco sull’educazione artistica che si è svolta a Lisbona nel 2006 ha lanciato l’allarme circa il divario crescente fra i processi cognitivi ed emotivi «che conduce ad un maggiore focus, nei contesti di apprendimento, sullo sviluppo delle competenze cognitive rispetto al valore riconosciuto alla sfera emotiva. Questa enfasi sugli aspetti cognitivi, a discapito della sfera emotiva, è causa del declino morale della società. Il processo emotivo è parte del decision making e agisce come vettore di azioni e di idee, favorendo la riflessione e il giudizio. Un senso morale profondo, che si pone alle radici della cittadinanza, richiede il coinvolgimento emotivo. L’educazione artistica incoraggiando lo sviluppo emotivo, può promuovere un equilibrio migliore tra lo sviluppo cognitivo ed emotivo, e dunque supportare la costruzione di una cultura di pace».

Dal post pubblicato sul profilo linkedin di Chris D. Connors sull’intelligenza emotiva

Mi è già capitato di accennare al fatto che qualsiasi siano i mezzi di cui disponiamo, l’incontro con un’opera d’arte produrrà comunque uno scambio, anche se non siamo completamente edotti sul suo autore e sulle circostanze storiche dalle quali è scaturita – a corollario di ciò non va dimenticato il grado di acquisizione culturale dell’individuo in una data epoca; tranne periodi che possono essere classificati come di “regresso”, si può affermare che la storia umana tende a un innalzamento del proprio livello di cognizione. Gli strumenti su cui contiamo oggi possono risultare dispersivi o causare perdita di concentrazione ma anche offrirci canali per comunicare e assimilare delle nozioni velocemente. Ciò è innegabile e contribuisce alla formazione individuale, pur lo ripetiamo con alcuni limiti e contraddizioni. Nell’esperienza di quel che abbiamo intorno, nella sua lettura, non è un dato trascurabile.

Dunque, vediamo come l’interesse per il patrimonio culturale sia strettamente intrecciato alle vicende del cosiddetto patrimonio umano, alla sfera della sensibilità e a un impulso creativo che nella comunità deputata alla fruizione e conservazione trova il suo inderogabile compendio. Con la ratifica della Convenzione di Faro da parte dell’Italia nel 2020 si è inteso per l’appunto ufficializzare il ruolo nello sviluppo umano rivestito dal patrimonio culturale (nelle sue ulteriori declinazioni di patrimonio naturale e intangibile, ossia legato alla comunità sociale incaricata della sua valorizzazione). Per sviluppo s’intende l’elevarsi della qualità di vita e il diritto garantito all’accesso al patrimonio.

Molte delle riflessioni fatte sin qui sono raccolte in due interessanti capitoli del Dossier pubblicato dal Centro di Ateneo per i diritti umani (Università di Padova) a cura di Desirée Campagna.

Per concludere sui temi della tutela e dell’educazione. Proprio in questi giorni sta tornando alla ribalta la questione etica delle collezioni museali laddove risultino acquisite in conseguenza di saccheggi durante la guerra o nel periodo coloniale. Ci si interroga su quando e come restituire e si stanno producendo mostre che vogliono sensibilizzare il pubblico su tali problemi. Anche in un simile caso si toccano ambiti che non sono strettamente legati agli oggetti del patrimonio ma coinvolgono la storia di una comunità, i suoi valori e tradizioni di riferimento, gli ordinamenti su cui si fonda.

Learn about diversity_Da un articolo collettivo su Linkedin a cui ho partecipato_in evidenza il parallelo fra patrimonio culturale e patrimonio umano

L’arte scuote punti nodali nell’ambito del diritto e gli artisti assurgono a human rights defenders, trasmettitori di quell’immaginazione necessaria ai cambiamenti della società.

Quando rinascono gli dei

Veste con fiordalisi. Dettaglio della Venere di Sandro Botticelli (figura femminile alla destra della dea)

Al giorno d’oggi capita di vedere gli dei rinascere. Cartonati, in maglietta, si presentano al pubblico, posano per un selfie tra i monumenti o si godono sfondi balneari. La divinità veste panni umani, tecnologici, al passo coi tempi – non fanno che ripeterlo, forse più per autoconvincimento. In tanti guardano e criticano – piovono meme da ogni dove, il modo più diretto per irridere, un bizzarro regolamento di conti (con qualche spunto simpatico, bisogna ammetterlo) interno al social network. Alcuni, ma meno, procedono all’opposto e affermano che è un successo proprio perché se ne parla così tanto. Pubblicità che si autoalimenta – anche questo secondo l’imperio social. I diretti interessati, che hanno presieduto al rito di rinascita, ringraziano, proprio perché si è fatto da subito un gran parlare e spippolare.

Del resto, con il velocizzarsi della comunicazione, direi con l’ascesa del suo carattere istantaneo, va di moda affermare che una cosa viene legittimata dalla forza con cui irrompe e s’impone nel dibattito. Che si tratti di un brutto episodio o di un bel gesto è secondario. L’importante è che se ne parli. Di sfuggita facciamo notare che la tendenza cui si assiste è quella che incensa la pessima fama. Vagamente aleggia il pensiero di Napoleone: parlate bene, parlate male… A quanto pare il condottiero francese aveva già carpito il segreto di autorevolezza (e metriche!) molto prima dell’avvento di internet.

Qualcuno sostiene che si tratta di critica per partito preso. Quale partito? Se oggi vi è una certezza, è che non si sa più con chi si parla. Un giorno siamo di potta e un giorno di culo – nell’esprimere una bassezza dei nostri tempi scendo volutamente di registro, adatto anch’io la comunicazione.

Nell’ultimo Sanremo abbiamo assistito ai vistosi sdoganamenti di Instagram – il motto era instagrammatevi tutti… che così risolviamo i problemi (questo lo aggiungo io) – e ai calcioni menati alle povere rose ornamentali del palco. Operazioni mediatiche, cui la prevedibile polemica del giorno dopo ha dato forza. Innalzamento dell’hype… ho detto hype, giuro che non è una parolaccia [“montatura pubblicitaria”; tradotto per noi comuni mortali] come social comanda. La mattina successiva al raptus Blanco spopolava nei trend, mangiandosi tutto. E infatti chi voleva cavalcare a sua volta un po’ di quella visibilità si è affiliato e affidato al suo traino.

Butto lì ancora un paio di riflessioni. La Venere pop di Andy Warhol continua ad avere un senso. La guardo, non mi urta per nulla, anzi. Tuttavia alla luce delle attuali dinamiche, qualcuno ha finito per identificarla con l’inizio di un processo di desacralizzazione (o sacrilegio) dei grandi classici. Comunque la si pensi, rimane la proposta di un creativo che costruisce un linguaggio per conto proprio (non un esperimento dell’IA, non un ammiccamento alle logiche del mercato virtuale). Gli improbabili e disarmonici patchwork, i mixage ispirati dagli influencer, le citazioni e i rimbalzi da account affollati, che poi si scoprono seguiti da identità-non identità, insomma quest’arte fluida, posticcia, ineducata e che dunque non potrà educare, è figlia nostra, nata dalla digital economy. Il mio assunto è molto semplice, perfino banale – ma ovvietà per ovvietà, preferisco il luogo comune ad ogni sovrastruttura pacchiana. Io dico che Sandro Botticelli è il miglior influencer in proprio che si possa immaginare. Quello che gli si mette intorno o, peggio, davanti, non è nulla o quasi. È un momento scenico, quindi effimero. Quando non si limita ad essere impacciante, scade nel ridicolo. Ciò significa infine prestare il fianco a un’economia di cartapesta – non lo dico io ma autorevoli analisti intervenuti anche poche settimane fa, dopo il crollo delle banche regionali in Silicon Valley. Tutto allora è sembrato esplodere in un attimo per poi, c’era da scommetterci, riassorbirsi alla velocità della luce; peccato che ancora non si sia fatta chiarezza sullo stato di salute di molti degli istituiti regionali coinvolti. Basti questo dato, che dovrebbe farci trasalire. In una settimana sono stati stampati 400 miliardi di dollari. Praticamente risulta che per tamponare la falla si è prodotto un debito equivalente a quello accumulato in duecento anni di storia economica degli Stati Uniti.

Quando gli dei rinascono open e social è sempre un evento. Così affermano. Quale sia il senso non importa. Ed ecco servito lo scotto che paghiamo all’essere anche noi rinati digitali. Chiudo dicendo che non demonizzo a prescindere certi strumenti di comunicazione. Ma il punto è nobilitarli, se possibile. Innalzare il livello. Renderli funzionali a divulgare qualcosa di non scontato, perciò provando a utilizzarli in modo non convenzionale. Poi ci sarebbero le questioni in fieri relative all’uso dei dati, alla privacy, alle profilazioni più o meno selvagge, al copyright degli artisti che non approfondiamo qui, ma che non sono di secondaria importanza per rendere infine credibili questi contenitori.

Avevo già avuto modo di scrivere che la discussione sui cosiddetti nuovi media è solo agli inizi. Ne sono profondamente convinta. Come sono convinta che certi canali possano aiutare a smuovere l’aria asfittica di alcune inviolate stanze. Ma ci vuole intelligenza. Perché a scadere nella corrente della diseducazione ci si mette un secondo, il tempo di un click.

John Dewey è stato uno tra i pensatori che maggiormente hanno contribuito al dibattito sulla fruizione dell’arte. Il fine educativo è per lui inderogabile. Lo accosto volentieri a Fernanda Wittgens, fra le menti più moderne e aperte nella cura del nostro patrimonio culturale, che molto si è spesa anche in qualità di educatrice, la quale era convinta che «i tanti intellettuali ignavi e asociali sono i veri responsabili della tragedia italiana». Come darle torto. Questa frase me la voglio incidere su una parete. Che danni fa la spocchia, che disastri la saccenteria. Queste sono le vere cose contro cui fare argine. Altrimenti il paese invecchia ancor più che nel bios nei cervelli. Il che è la vera iattura. Allora, meglio mille volte chi smuove l’aria. Se poi sbaglia o fa qualche scivolone, va anche bene. Basta non rimanere fermi. Sul resto, sono più che certa sia possibile trovare una misura. Purché non si perda di vista la realtà. Quando si pensa al turismo, oggi, è d’obbligo lanciare strategie indirizzate a distribuire i flussi, gettando un occhio (meglio entrambi) alla sostenibilità, aprendo letteralmente vie nuove. Quindi servono prima di tutto le infrastrutture. Come copro i quattro chilometri dalla stazione alla fortezza di Talamone? Un esempio che vale per tantissimi itinerari. Con la bella stagione le piste ciclabili sarebbero la cosa più semplice, senza impatto ambientale, comode, piacevoli. Solo che in Italia non ci si è mai voluto investire più di tanto. È un esempio fra i tanti. Insomma, la vera rivoluzione io credo stia nel saper interpretare e coniugare esigenze diverse, ispirati da valori ben distanti dal mero e insostenibile consumismo.

Venere in una pittura pompeiana

Di seguito un paio di articoli per approfondire alcuni temi toccati in questa riflessione. Il primo sulla campagna Open to meraviglia. Un buon articolo. Va in direzione contraria e chi dice cose in direzione contraria mi piace. Anche se non concordo con l’idea base di “bersaglio grosso” e “bersaglio piccolo”. L’Italia è il paese per eccellenza del patrimonio diffuso. La somma di queste meraviglie diffuse sul territorio fa il cosiddetto bersaglio grosso. È una questione di riorientamento del punto di vista, un problema nodale per i motivi che ho spiegato a conclusione del mio scritto.

Open to Meraviglia: top o flop? su «La Svolta»

Poi un vivace commento sull’ascesa mediatica di Chiara Ferragni. Credo che sul suo passaggio a Sanremo si sia scritto un articolo al minuto, un po’ come per il dibattito su Open to meraviglia, dove del resto, e a ragione, si è rilevata una discreta presenza di “ferragnizzazione”. Ripropongo questo articolo non in quanto pamphlet sul personaggio che si sa essere estremamente divisivo e rumoroso ad ogni colpo di tastiera, ma perché è molto interessante l’analisi sulla sovrapposizione fra life e content, che a mio avviso aiuta a capire in quale “gioco” (o assillo) siamo immersi.

Chiara Ferragni, il racconto dell’ancella dell’algoritmo su «Rivista Studio»

Google plus – C’era una volta un social

Questa riflessione prende spunto dall’ennesimo restyling di qualche giorno fa ad opera di facebook, stavolta destinato alle pagine aziendali. Volendo lasciare un feedback sulle cosiddette nuove pagine non posso esimermi dal dire di trovarle peggiorate sul piano grafico; direi che a risentire di tale peggioramento è anche, in generale, la fluidità dell’interazione. Inoltre, tolta de arbitrio la vecchia descrizione dei contenuti a favore di una presentazione più stringata, forse volutamente più razionale, l’impressione è, ripeto, di una compagine impoverita. Per farla breve, sembra tanto un riassetto a risparmio.

È stata fatta una media tra follower e like, unendo i due gruppi (mi sfugge sulla base di quale criterio), a quel che sembra ridimensionando entrambi.

Pertanto, la nuova pagina proposta da fb risulta più debole, ancor meno comunicante con l’esterno. Sarà che da anni il social “gratuito” punta sull’adesione degli utenti alle sue campagne pubblicitarie; il fenomeno delle case editrici che si sponsorizzano a pagamento è davvero fra gli esempi più vistosi.

Tutto ciò conferma la mia impressione di uno spazio tutt’altro che innovativo, direi invece sempre più obsoleto (altro che innovazione nel modo di comunicare!) che ormai introduce cambiamenti fittizi i quali anziché proporre ingredienti diversi, sembrano avviarsi a una noiosa staticità, per giunta direzionata e appesantita dai noti controlli e profilazioni.

Questa ulteriore “svolta”, che svolta non è, si direbbe più un preludio a una dismissione o prossima diramazione tra uno strumento-base gratuito ma con pochissime funzionalità, affatto dinamico e destinato alla periferia della rete, e uno “evoluto” ma a pagamento (le sponsorizzazioni del resto sono già un tassello rilevante di questa struttura bipartita).

Tornando al tema, a me personalmente si para davanti una paginetta da prima elementare – anzi i bambini saprebbero essere molto più propositivi e creativi – un’area basica e poco accattivante che mi fa pensare a tutto tranne che al futurista metaverso, alla forza algoritmica e ad altri ritrovati del tecnologico oggi. Se questo è il figlio di una ricerca di anni, mi sembra si cammini alquanto all’indietro.

Ricordate la fretta e furia con cui venne chiuso google plus? Si disse che il numero di visualizzazioni era un fake e che, in conseguenza, premiava persone non organiche all’ufficialità politica, culturale ecc.. E dunque? I social all’apparenza sono stati sdoganati proprio per questo… All’apparenza. Perché poi i veri lanciati e sostenuti si scoprono essere i più organici e compromessi. Ma valla a capire questa democrazia plutocratica e tecnologica…

Resto ancora un attimo sul povero google plus, figlio di un social minore. Io posso dire che quello spazio mi aiutò a trovare dei contatti e sì, avevo più di un milione di visualizzazioni (fake secondo alcuni giornalisti). Ma perché accalorarsi tanto, perché occupare addirittura spazi pubblici sulla stampa nazionale, per dire che su quel canale i più giovani “scippavano” immeritate attenzioni? Insomma, tanto si disse, tanto si fece che prima il gestore tolse la funzionalità inerente alle visualizzazioni – così per far contenti i contestatori con le verità rivelate in tasca – e poi, neanche due anni dopo, chiuse i battenti. È pur vero che google plus non decollò mai veramente e aveva di per sé un bacino di utenza ridotto – il che rende l’acredine e la critica di cui fu destinatario ancor più fuori fuoco. Tuttavia la soppressione del brutto anatroccolo social va ricordata come un clamoroso precedente: una chiusura del tutto arbitraria, forse sollecitata da altri colossi del settore per togliere un contendente in grado di ritagliarsi una sua presenza per quanto più piccolo.

Così l’offerta è tornata a rimbalzare tra i soliti “giganti” – ogni cosa di nuovo al suo posto, insomma – ma ultimamente un po’ argillosi, sempre più argillosi fra perdite economiche, defezioni, inchieste, dispute giudiziarie (caso Musk-twitter, per fare un esempio).

Anche i social, i cosiddetti social innovatori del contemporaneo, si dividono il mercato e lo controllano. Perché sono il frutto ultimo ed estremo di quelle stesse regole di mercato che li hanno generati. Anzi, proprio in quanto frutto tardivo, hanno in sé molti difetti di un mercato entrato in affanno. Siamo ormai, credo, vicini alla presa di coscienza che gli strumenti che abbiamo ritenuto finora funzionali e imprescindibili alla costruzione del futuro siano in realtà quanto di più obsoleto abbiamo fra le mani. Penso che questi spazi come li conosciamo ora abbiano fatto il loro pezzo di strada. Il tentativo di direzionarli o disciplinarli attraverso più o meno latenti dispositivi censorii è un indicatore della loro arretratezza.

D’altra parte mi sembrano promettere molto di più i mezzi che coniugano attività e comunicazione, rispetto a quelli della “comunicazione pura”. Chat istantanee, bacheche virtuali, piattaforme di team building secondo me hanno molte più prospettive davanti a sé e possibilità di affermarsi in un riassetto di interlocutori e interessi che investirà per l’appunto anche la comunicazione. Mi riferisco a spazi in cui l’informazione circola sviluppando progetti di gruppo, servizi, a partire da un’attività reale generando altra attività.

I social classici invece aiutano solo chi al di fuori degli stessi vanta già di per sé un bacino piuttosto ampio di referenti (un andamento verticistico e piramidale che riflette il divario sociale, in questo miseri e fedeli perimetri, specchio della realtà). Gli altri fanno numero, magari si sfogano, magari aggiornano il profilo con le vicissitudini o i trionfi del giorno e… magari donano i propri dati personali al gestore di turno.

Con la pandemia i social tout court mi sono apparsi definitivamente avviati alla senescenza. Mentre proprio nella prima fase delle chiusure se ne celebrava l’enorme indiscussa potenza… (sempre gli stessi vocalizzi, sempre la stessa faccia della luna). Di sicuro ci sarà intervenuto anche un mio moto personale; difficoltà, necessità, cambiamenti di vita collocano l’effimero dove ha da stare. E certo, ho fatto pure una valutazione sulla qualità del mio tempo: chiuso twitter ho scritto di più, i momenti liberi anziché dedicarli ad aggiornare una scatolina con un migliaio di utenti che puntualmente per progredire di pochissimo mi assorbiva non poche energie, li ho appunto liberati, offrendoli appieno a molto altro e di ben più utile nella mia vita. Quando osservo le ore che persone di cultura, che considero anche valide, spendono per badare a queste vuote cornici rabbrividisco. Penso subito alle loro belle energie mentali così miseramente gettate via. E poi, per quanto nobile sia divulgare progetti solidali, luoghi che si sono visitati ecc…, un tramonto, un abbraccio, il vostro bambino sono vostri, sono di quel momento. Teneteli per voi. Rallentate, almeno. Non esibite, almeno esibite di meno. Anch’io la mia pagina, per quanto ormai la consideri davvero accessoria al mio cosmo creativo, la tengo. Per ora, per quel che posso, la aggiorno. Ma più blandamente. C’è un po’ di protesta per uno strumento che fagocita offrendo poco, ma più ancora un sano distacco. La vera rivoluzione adesso ritengo sia questa, sia questo passo che allontana da ciò che è scontato, se non fermo.

Guardando oltre me, sono convinta che come molte cose anche il comunicarsi, dunque le forme di condivisione del proprio essere ed esserci, andranno incontro nel breve a un radicale mutamento.