Chi ha visto l’elefante bianco?

Era tradizione in Siam che il re offrisse un elefante bianco ai membri dell’élite decaduti dal suo favore. Non si trattava di un regalo, piuttosto di una punizione; diversamente dagli altri animali, infatti, il dono era sacro, andava mantenuto e dunque non poteva essere utilizzato per lavorare. L’espressione inglese “white elephant”, che in questa pratica affonda le sue radici, viene a designare un progetto senza sbocchi, qualcosa che si pensava funzionale e che poi finisce per impaludarsi, a causa di un vizio nel progetto stesso o del difetto di volontà – interessato o semplicemente frutto di inadeguatezza – di chi avrebbe dovuto farsene carico.  

La locuzione omologa in italiano sarebbe “cattedrale nel deserto”, coniata nel 1958 da don Luigi Sturzo, in riferimento a tutti quei cosiddetti grandi progetti (improduttivi) pensati per le zone depresse d’Italia. In generale, la nostra lingua utilizza un’espressione che ha perfino dei risvolti poetici per tratteggiare una realtà di degrado sulla quale purtroppo il bel paese non lesina quanto a esempi.

Le cattedrali nel deserto sono certamente fisiche ma ancor più mentali. Anzi, diciamo che in generale nascono nel pensiero. Spesso queste idee sono azzardate e sbilanciate fin dalla prima concezione. Edifici dalle faraoniche pretese, immaginati in spazi privi o quasi di collegamenti, oppure grandi strutture polifunzionali su cui si ripongono troppe ottimistiche speranze, quanto a prospettive di occupazione e sviluppo del territorio. Il caso più recente lo stiamo riscontrando in Cina dove intere città, sorte in fretta per assorbire e urbanizzare i flussi migratori interni dalle campagne, alla prima seria battuta di arresto di un ciclo economico favorevole pur sospinto da molte contraddizioni, rischiano di restare vuote. Il che mette anche in discussione l’intero modello, perché forse non si tratta neppure di una crisi sistemica ma di un problema di portata ben più grande.

Air & Space Museum – Provocation, state of mind or physical truth?

A tutto ciò si aggiunga che pure molti spazi già organizzati corrono il pericolo di una desertificazione. I musei, i centri espositivi e culturali sono fra questi. Creature dall’anima poliedrica – se solo si volesse veramente e compiutamente farla emergere con il concorso di professionalità non inquadrate in schemi ormai inadatti – depositarie di un altissimo potenziale pronto a trasformarsi in qualcosa in grado di catalizzare forze economiche latenti. È peraltro l’oggetto del mio ultimo saggio Cultura e creatività per un’altra economia («Incroci», n. 47, giugno 2023). La riduzione degli orari di apertura, la mancanza di servizi adeguati che aiutino a raggiungere certi luoghi incentivando quindi la permanenza negli stessi, costituiscono problemi strutturali che non possono essere aggirati se si vuole puntare a un vero rinnovamento.

Analizzando alcune situazioni diciamo di “isolamento culturale” emergono diverse criticità, frutto di premesse diverse ma con un minimo comune denominatore; il fallimento degli intenti iniziali, il deteriorarsi di un sito, quando non si arrivi a constatarne un’assoluta decadenza. Fra i report che mi è capitato di leggere ci sono il mancato decollo del Museo di Archeologia Subacquea a Grado e non pochi clamorosi flop romani: la vela di Calatrava, le Torri dell’EUR, gli ex mercati generali a Ostiense, la ex fabbrica di penicillina LEO. In quest’ultimo caso si tratta di uno dei numerosi resti della deindustrializzazione (ricordiamo pure Torino per l’incidenza molto alta di problematiche di questo tipo). Ancora, i problemi di raggiungibilità di Capodimonte e i suoi ben poco sfolgoranti dintorni – si rimanda a un articolo di Gennaro Di Biase uscito su «Il Mattino» alla fine del 2021, che con piglio anche ironico descrive una situazione di estremo contrasto fra l’interno del polo museale e la trascuratezza delle immediate vicinanze.

Cito a chiudere l’interporto di Bologna da poco inaugurato come museo a cielo aperto della street art. Un progetto molto interessante, che fa il punto e accende i riflettori su una delle espressioni più controverse – ma anche affascinanti – dell’arte contemporanea. Mutatis mutandis quelle che si candidano come gigantografie o sinopie dell’oggi, necessitano chiaramente di spazi molto estesi. Se da una parte si è messo a terra qualcosa che intende valorizzare un’area altrimenti difficile da “interpretare”, il rischio è che sia poco vissuta.

Abbiamo già avuto modo di discutere come l’idea di patrimonio culturale sia estremamente variegata e necessariamente antropizzata. Fruizione, condivisione, tutela fondano le loro radici nella comunità e a regole comunitarie si appellano. Beni e persone, oggetti e immaginari collettivi, materiale e immateriale si confrontano nella mutua ispirazione di strategie volte sia a conservare che a divulgare. Strategie per il territorio a presidio e cura. Diviene quindi centrale il ruolo dell’educazione, dal momento che solo lo studio approfondito dei propri segni identitari e al contempo della diversità culturale porta alla comprensione reciproca, anche nell’ottica della risoluzione e prevenzione dei conflitti. Materia che, alla luce degli attuali scenari di guerra, dovrebbe ancor più spronarci a riflettere.

Infine il pericolo della polarizzazione fra aree attrattive (e ormai sommerse dallo tsunami turistico) che continuano a magnetizzare su di sé tutta l’attenzione e la mancanza di valide opzioni. Lo sviluppo territoriale di cui sopra è da intendersi in senso culturale e sociale. In molti casi, anche nelle storie di maggior successo, l’effetto controproducente è che i flussi turistici restino in buona sostanza estranei al territorio. Privilegiare una logica commerciale, anziché economica, significa sottrarsi a una programmazione lunga, che in una società complessa costituisce l’unica via per generare risposte efficaci e risultati produttivi.

Le strategie di comunicazione sono pure molto importanti purché responsabili e ispirate da una solida visione emotiva e analitica.
Communication strategies are also very important as long as they are responsible and inspired by a sound emotional and analytical vision.


Si veda anche:

Musei, oltre alle classifiche dei visitatori bisogna pensare a strategie per il territorio – Stefano Monti su «Archeoreporter», 13 gennaio 2023

Bergamo è un fiore

Ai piedi delle Orobie, città di architetture e atmosfere insolite, incorniciata da bellezze naturali con in dote un patrimonio culturale di rilievo, ai più forse poco noto. La parte vecchia dell’agglomerato, se si ha la fortuna d’incontrarla di sera, risalendo lungo i tortuosi muri che scortano verso l’alto, tra il silenzio e il profumo delle fioriture, sprigiona un fascino davvero singolare.

Verso la Città Alta, salendo lungo le antiche mura

In questo momento si stanno tenendo tantissime iniziative per vivere al meglio i percorsi urbani e sperimentare la vocazione artistica del luogo. Bergamo è infatti capitale italiana della cultura per il 2023. Molte le installazioni e i programmi che vanno dai festival musicali alle mostre, fino alla scoperta dei numerosi ecosistemi cittadini – ad esempio con la sentieristica dell’orto botanico, vero e proprio giardino pensile che sovrasta le mura veneziane.

Questa del paesaggio fiorito è forse la più spiccata delle caratteristiche offerte da Bergamo nella stagione calda. Roseti dappertutto. Una città letteralmente incoronata di rose. Una propensione ‘botticelliana’ e non a caso il maestro del Rinascimento si affaccia dalle sale dell’Accademia Carrara, sfaccettato gioiello dove sono raccolti capolavori assoluti. Un ambiente davvero suggestivo. Gustare la prossimità delle prealpi, percepirne la presenza, mentre ci si immerge fra i quadri del Quattrocento toscano, e poi Carlo Crivelli, Sofonisba Anguissola – unica rappresentanza femminile – Giovanni Bellini, Lorenzo Lotto, Andrea Mantegna, Giovanni Battista Tiepolo, Francesco Hayez.

Benozzo Gozzoli, Madonna con bambino e angeli (Madonna dell’Umiltà), 1440-1445
Vicino da Ferrara, Angelo che piange, 1465-1470


Voracità espressiva dell’allattamento
1. Bergognone (Ambrogio da Fossano), Madonna che allatta il bambino, 1492-1495 circa. * Il capezzolo enorme di questa Madonna-contadina a cui il bambino si attacca con vorace appagamento suggerisce una spiritualità davvero terrena, carnale, incarnata. Esempio stupendo della presenza piemontese nel Quattrocento lombardo.
2. Giovanni Antonio Boltraffio, Madonna che allatta il bambino, 1508 circa.

Carlo Crivelli, Madonna col bambino, 1482.

*Il quadro esposto alla mostra di Palazzo Buonaccorsi a Macerata quest’inverno. Ritrovarlo qui è stato rivedermi nell’istante in cui l’ho osservato nelle Marche. E questa del vedere più volte un’opera che ci innamora in luoghi diversi è quasi una trasmigrazione spirituale. Per me uno stato che mi fa ricordare esattamente com’ero, cosa ho detto, chi era accanto a me quando l’ho visto altrove.
In tale circostanza si è anche rinnovata la sorprendente continuità con cui quest’anno, ad ogni mostra che ho visitato dopo Macerata, mi è sempre venuto incontro un Crivelli.


Un Francesco Hayez sfolgorante, che sta sempre e ovunque molto bene...

Francesco Hayez, Caterina Cornaro riceve l’annuncio della sua deposizione dal Regno di Cipro, 1842 (dettaglio)


Nelle sale ho pure avuto il piacere d’incrociare l’ex direttrice di Capodimonte che mi ha raccontato fatti d’interesse sia della Carrarese che delle collezioni napoletane. Se questa non si chiama fortuna.

Fiori che trionfano anche in un bellissimo allestimento all’entrata dell’Accademia stessa, a precedere il percorso di visita. Una galleria che racchiude schegge floreali, come un abbraccio fra città, immaginario che è qui sedimentato e bellezze custodite.

Rosa fresca aulentissima

Nella mia permanenza mi è quasi sembrato di onorare un rito apuleiano. E infatti Apuleio si è poi materializzato sotto una delle porte cittadine nell’aspetto di una bizzarra opera contemporanea. Un ‘disco epigrafico’ che ha subito richiamato la mia curiosità. Me incredula!

* Fotografie di Claudia Ciardi ©